Recensione di “Figli dell’estate” di Monika Held
Un prolungato stato di coma, o meglio una sua particolare evoluzione caratterizzata da assenza di movimento e mancata reazione agli stimoli sensoriali e percettivi; una sorta di sonno in qualche modo vigile, nel quale gli occhi aperti si affacciano su un mondo misterioso, che sembra non avere contatti con quello che si sperimenta tutti i giorni e che pure non è da esso del tutto avulso.
Sindrome apallica; così si chiama quel che è accaduto a Malu, la sorellina del quindicenne Kolja, la sera in cui ha deciso di fare un ultimo tuffo in piscina e si è rifiutata di dare ascolto al fratello, che preferendo il mare l’ha lasciata sola. Per quanto tempo? Kolja non riesce a ricordarselo. Non può dare risposta a tutti coloro che glielo domandano, che gli chiedono cosa sia successo, come sia potuto accadere quel che è successo; tutto quello che sa è che lui era seduto su una panchina a guardare il mare, e nel mare, tra le onde, il corpo magro di Rania, di un anno più grande di lui, la ragazzina di cui è innamorato e che lei, senza che Kolja lo sospetti, ama già di un amore profondissimo. Per quanto tempo? Kolja non lo sa, e anche per questo non riesce a smettere di pensare a cosa avrebbe potuto fare, a cosa avrebbe dovuto fare per evitare che Malu venisse riportata a galla, e proprio da Rania, nuotatrice provetta, dal fondo della piscina dove si trovava, il corpo disteso, quasi rilassato, gli occhi aperti, come se avesse deciso di sistemarsi lì. Kolja, Malu, i loro genitori stravolti dal dolore, Max, il fraterno amico di Kolja conosciuto proprio in clinica, dove è ricoverato il cugino, anche lui “addormentato”, anche lui lontano, anche lui irraggiungibile, e Rania, la salvatrice che ha strappato una bambina alla morte per consegnarla a una vita che non somiglia a nessuna vita che si vorrebbe vivere, per destinarla all’immobilità, al silenzio, alla stanza di una clinica specializzata e a terapie che sembrano non avere alcun effetto, a tentativi di decifrare quell’indecifrabile enigma che ha nome cervello, quella macchina perfetta e fragilissima che una minima assenza d’ossigeno può mandare in pezzi, sono i protagonisti di un romanzo meraviglioso e straziante, Figli dell’estate di Monika Held. La scrittrice tedesca narra con una prosa che è tanto elegante e preziosa quanto intensa e profonda; dall’oscurità di un caso terribile guarda ai suoi personaggi, ne esplora la complessa interiorità e con coraggio la mette a nudo, si misura con la sofferenza e il suo potenziale distruttivo e riflette su quanto il senso di ciò che siamo e che facciamo viaggio lungo il sottilissimo filo del caso, un filo che può spezzarsi in qualsiasi momento.
È il cervello, con i suoi naufragi, le sue sconfitte, i suoi abissi, il labirinto narrativo e la chiave interpretativa di questo lavoro: nel buio dei suoi vuoti, dove gli scienziati, i professionisti, coloro che sono deputati a curare, a guarire, arrancano nello stesso modo dei genitori, dei fratelli, dei parenti dei malati, consumati dalla disperazione, dalla rabbia, dal rimorso, dall’impotenza, Monika Held ragiona sulle infinite sfumature dell’esistenza; osserva senza giudicare lo strazio della madre di Malu e Kolja, che sembra riuscire a sopportare quel che ha colpito la famiglia solo incolpando il figlio, solo trasformando in rancore il tormento che la affligge; registra la codardia del padre, che di fronte a uno scenario di macerie non riesce a fare altro che distogliere lo sguardo, voltare le spalle e prendere un’altra strada, andarsi a cercare una vita diversa, nuova, della quale non facciano più parte né una moglie che non riesce a più a riconoscere né un figlio che non ha più la forza di amare e la volontà di difendere; segue Kolja nella sua affannosa ricerca di un perché, di una ragione che in qualche modo possa metterlo al riparo da ciò che prova, che possa placare l’inadeguatezza che gli si stringe addosso, che gli permetta di non associare alla parola responsabilità la parola condanna, oltre la quale si spalanca il nulla; illumina di pietà e commozione ogni gesto di Max, amico e compagno devoto, salvezza di Kolja, sua sola possibilità di e futuro, e in compagnia di Rania adulta, psicologa specializzata nell’indagare i rapporti che legano le persone ai luoghi della loro infanzia, ricostruisce come un puzzle, tessera dopo tessera, quel momento tragico, quel giorno indimenticabile che tuttavia il suo cervello, la sua memoria, le ha tolto, cancellandolo quasi per intero e lasciandole soltanto un’epifania simile a un’illusione, a un miraggio, un confuso insieme di suoni e colori alla cui fuggevole ombra di verità lei tenacemente s’aggrappa. Per tornare dove un giorno salvò e forse fu salvata.
Figli dell’estate è un romanzo che si legge d’un fiato, che coinvolge, emoziona, insegna. Un’opera magnifica.
Eccovi l’incipit. La traduzione, per Neri Pozza, è di Susanne Kolb. Buona lettura.
La frase con cui lo mandò via si confuse con il rumore della porta che richiuse adagio alle sue spalle. Adesso vai a vedere cos’hai combinato.