Recensione di “Auto da fè” di Elias Canetti
Immaginate un gran numero di ritratti di Dorian Gray. Provate a figurarvi i volti dipinti consumati dal vizio e dalla corruzione, la pelle coperta di piaghe, gli occhi gonfi e rossi di sangue, la bocca simile a una ferita, le labbra ridotte a laceri lembi di pelle. Ripensate, insomma, alla chiara simbologia del capolavoro di Oscar Wilde, che trasferisce al quadro dov’è riprodotto il giovane Dorian al culmine del suo giovane splendore le conseguenze della sua abiezione morale, trasformando il suo incarnato perfetto in una maschera mostruosa.
La malvagità, ma anche, ben più modestamente, la meschinità, la codardia degli uomini verso quasi tutto ciò che sarebbe, se non giusto, almeno doveroso compiere, che in Wilde sono mali dell’anima (rappresentata dal quadro), nel folgorante romanzo Auto da fè di Elias Canetti, premio Nobel per la letteratura nel 1981, sono semplici comportamenti, modi di essere.
La società che Canetti costruisce nel suo romanzo, infatti, somiglia a un girone infernale, e i personaggi che popolano questo luogo d’incubo, incapaci di guardare ad altro che all’immediata soddisfazione delle proprie brame, si riducono a corpi ciechi, istintualità ferine che di continuo fiutano l’aria in cerca della preda. Canetti li osserva con il piglio dello studioso; si allontana da loro quanto basta per analizzarli con cura, minuziosamente, e per ridere della loro ansimante immoralità.
Li descrive con sarcasmo feroce, insaziabile, impietoso. Come un dio maligno. Ma nel ricamare la sua burla l’autore non dimentica mai che quel che sta raccontando è il mondo in cui vive, e che gli uomini e le donne che offre allo scherno e alla riprovazione del pubblico sono i nostri fratelli e le nostre sorelle. Siamo tutti noi. Il prepotente slancio narrativo di Auto da fè, la sua scrittura ricca, melodiosa, incalzante, rapiscono il lettore e lo costringono a confrontarsi con se stesso, con gli altri. A guardarsi in un modo nuovo. Forse non piacevole, ma senz’altro catartico.
Ora spazio a Canetti. Prima la descrizione di uno dei personaggi principali del romanzo, il professor Kien, sinologo di fama mondiale che sopra ogni altra cosa ama i libri, poi quella della sua governante Therese, una donna insignificante, non più giovane, poco meno che analfabeta, rozza di modi e volgare d’aspetto, che con astuzia riesce a farsi sposare da Kien e pretende di gustare le gioie del talamo.
Il professor Peter Kien, un uomo lungo e asciutto, uno studioso, specialista di sinologia, infilò il libro cinese nella borsa rigonfia che teneva sotto il braccio […]. Aveva l’abitudine, durante le passeggiate che compiva tra le sette e le otto del mattino, di dare un’occhiata alle vetrine di tutte le librerie che trovava sulla propria strada. Quasi con gioia constatava che robaccia e porcherie d’ogni genere occupavano sempre più spazio. Quanto a lui, possedeva la più importante biblioteca privata di quella grande città, e ne portava sempre con sé una piccola parte […]. Kien batteva col palmo della mano sulla sua borsa gonfia di volumi. Se la teneva stretta addosso, in una maniera speciale che aveva escogitato lui perché vi fosse sempre tra essa e il suo corpo il più ampio contatto possibile. Le costole la sentivano oltre l’abito sottile, di qualità scadente. La parte superiore del braccio veniva a disporsi lungo la piega laterale della borsa, dove entrava di giusta misura. Sotto, l’avambraccio fungeva da sostegno. Le dita divaricate si stendevano con voluttà su tutta la superficie. Scusava davanti a se stesso questa cura eccessiva accampando il valore del contenuto. Se la borsa per caso finiva per terra, se la serratura, che lui controllava ogni mattina prima di uscire, si apriva proprio in quell’istante pericoloso, per quelle opere preziose era la fine. Niente lo disgustava più di un libro insudiciato.
«Eccomi qua». Lei sta sulla soglia della stanza accanto in una sottoveste di un candore abbagliante, guarnita di ampi merletti […]. Therese si avvicina dimenando i fianchi. Non scivola, sembra che si dondoli […]. Lei dice gaia: «Come mai così pensieroso? Ah, gli uomini!». Ripiega il mignolo e con esso lo minaccia e gli indica il divano. Devo seguirla, pensa lui, e senza saper come si ritrova al suo fianco. E ora, che deve fare? Farla sdraiare sui libri? Trema di paura, implora i suoi libri, l’ultima barriera. Therese coglie il suo sguardo, si china e con un ampio gesto del braccio sinistro spazza via i libri gettandoli d’un colpo sul pavimento. Lui li guarda, abbozza goffamente un gesto. Vorrebbe gridare ma l’orrore lo soffoca, deglutisce e non riesce a proferir parola. Un odio terribile lo pervade a poco a poco: lei ha osato far questo! Ai libri!
Therese si toglie la sottoveste, la piega con cura e la posa sui libri sparsi per terra. Poi si sdraia comodamente sul divano, ripiega il mignolo, sogghigna e dice: «Ecco fatto!».
Kien esce a precipizio dalla stanza a lunghi passi, si chiude a chiave nel bagno, l’unico locale di tutta la casa in cui non vi siano libri, cala meccanicamente i pantaloni, siede sull’asse e si mette a piangere come un bambinello.