Recensione di “Tom Jones” di Henry Fielding
“Avevo già intenzione di scrivere sul Tom Jones, ma queste note recano il segno dell’impressione suscitata in me dai giudizi della moderna critica letteraria e dei miei stessi studenti di Sheffield; mi sono dovuto chiedere perché giudico il libro tanto migliore di quanto lo trovino l’una e gli altri […]. I critici moderni in genere partono dal presupposto a) che l’artista non deve propagandare teorie, e b) che in ogni caso la sola teoria elevata che valga la pena di propagandare è quella che predica disperazione e disprezzo del mondo; a mio parere, questa combinazione porta a un vicolo cieco critico”.
Così William Epson, puntando l’indice sulla sostanziale miopia della critica, elogia e difende quello che è con probabilità il lavoro più noto e riuscito di Henry Fielding, il picaresco, irresistibile Tom Jones, che così gradito riesce anche al lettore moderno in forza dell’ironia, arguta e lieve a un tempo, che si ritrova quasi in ogni pagina, e che l’autore elegge a misura dell’uomo e di tutte le cose. Non c’è movente, non c’è azione, non c’è umana vicenda, sembra dirci Fielding narrandoci le peripezie del suo eroe – un trovatello allevato da un ricco gentiluomo di campagna cui occorrono, soprattutto a causa della malvagità e dello sfrenato egoismo di alcune persone a lui vicine, parecchi inciampi, rovesci di fortuna e finanche vere e proprie disgrazie (basti dire che il povero ragazzo finisce per ritrovarsi persino in gattabuia con un’accusa di omicidio sulle spalle) – che non possa essere illuminata da un pizzico di dolce sarcasmo, la cui architettura narrativa (e la conseguente profondità di significato) è ancora Epson a illuminare magistralmente: “l’ironia semplice presuppone un censore; l’ironico A si fa beffe del tiranno, rivolgendosi al giudizio dell’ascoltatore C. Con la duplice ironia, A finge di capire sia il punto di vista di B sia quello di C; B non può più impedire che A si esprima apertamente, ma può sempre essere scelto come rappresentante del credo più ufficiale o più gretto”.
Così, è alla luce della sua ironica lanterna di Diogene che Henry Fielding costruisce la sua storia e ne dipana l’intreccio; egli, voce narrante e cronista di ciò che accade, guarda con ammirazione ai maestri dell’antichità ma ancora una volta, quando sceglie di servirsi del loro esempio, lo fa da scrittore moderno, da uomo dei suoi tempi, da artista creatore conscio del proprio valore, ed è ancora alla burla che egli ricorre, utilizzandola tanto per omaggiare quanto per rivendicare la propria autonomia; non si può dunque non ridere nel momento in cui l’eroica musicalità di Omero viene messa al servizio di una comune rissa, nella quale a distinguersi sono donne che di femminile sembrano avere soltanto il nome, né è possibile restare indifferenti quando le più ricche similitudini, o i limpidi richiami alle liriche d’Arcadia disegnano l’entusiasmo sguaiato per la caccia di un ricco signore di provincia il cui carattere somiglia troppo a quello dei suoi servitori e per il quale la sincerità delle parole e delle intenzioni si protesta esclusivamente in un ininterrotto fluire di bestemmie e insulti. Ma quel che davvero colpisce e conquista, nel Tom Jones, è la capacità di condurre con sé il lettore in un viaggio di oltre 700 pagine (nell’edizione italiana pubblicata da Feltrinelli nel 1964, con traduzione di Decio Pettoello) che resta meraviglioso e indimenticabile a dispetto della semplicità quasi elementare della trama – con l’orfano Tom Jones, nei confronti del quale a tempo debito ci sarà la salvifica agnizione, ben mutuata dalla struttura della commedia classica, che, adottato da un uomo buono e con molti mezzi, a causa di uno spregevole complotto ordito da coloro di cui più dovrebbe fidarsi, perde l’affetto del suo padrino e vaga per l’Inghilterra affrontando mille e mille ostacoli con il cuore che sanguina d’amore (appassionatamente ricambiato, va da sé) per la bellissima Sofia, figlia del già citato signore appassionato di caccia, a tutto disposto per amore della giovane fuorché a darla in sposa a qualcuno privo di sostanze qual è per l’appunto il povero Jones ripudiato da colui che l’ha allevato.
Al pari del cercatore di tesori che si addentra in una fenditura nella roccia certo di trovare una caverna colma di gioielli e pietre preziose, Fielding plasma un materiale narrativo poco più che impalpabile in una suggestiva odissea nella quale a brillare e precipitare nell’oscurità sono i rappresentati di una società malata e fragile cui egli guarda con disincanta saggezza e alla quale generosamente dona la salvifica anarchia del riso.
Eccovi l’incipit. Buona lettura.
Un autore dovrebbe considerarsi, non come un signore che dà un banchetto privato o di beneficenza, ma piuttosto come uno che tiene un pubblico ristorante.