Recensione di “Resteranno i canti” di Franco Arminio
“Per Franco Arminio l’organo della vista sono le parole, molto prima degli occhi. Le parole sanno posarsi su dettagli che fino a un minuto prima erano invisibili, illuminandoli. Nascono nel silenzio, ma ridanno voce ai paesi spopolati. Sanno di essere fragili, ma non temono ‘il lupo nascosto dietro lo sterno’. In una perenne oscillazione tra uno scrivere che cerca la vertigine e uno scrivere che dà gloria all’ordinario, Arminio si muove senza tregua tra i due poli della sua poesia: l’amore e la Terra, il corpo e l’Italia, la morte e lo stupore.
Si tratta di festeggiare quello che c’è e di cercare quello che non c’è. Fedeli ai paesaggi, seguendo la strada di una poesia semplice, diretta, non levigata, questi versi sono una serena obiezione al disincanto e alla noia. La politica, l’economia, le cosiddette scienze umane, sono gomme lisce nella neve. Solo la poesia ha le catene”. Con queste parole, nel risguardo di copertina, viene introdotta la splendida, intensissima raccolta di liriche di Franco Arminio intitolata Resteranno i canti, un viaggio del cuore, dell’anima e del suolo alle radici del mondo, un tremito dei sensi scossi dalla bellezza e dal timore, accarezzati dall’attesa e dal silenzio, vivificati dai versi, dalle voci, dai sussurri, dalla perfezione intatta delle sillabe, talmente preziose da dover essere raccolte sotto la bocca, “come una donna raccoglie il seme del suo amante”. La scrittura di Arminio è un’esplosione dolce, è la quiete della gravidanza e il luminoso trauma della nascita, è l’atto irrimediabile e colmo d’amore dell’esistere, è il lacerarsi liberatorio del sacco amniotico e il pianto sbigottito del neonato di fronte alla magnificenza delle cose; poi, come attimi, come squarci, come pause, come parentesi durante le quali il fiato si raccoglie per poter continuare a parlare, a raccontare, a mostrare, a indicare, perfino a segnare a dito nell’urgenza di partecipare, condividere, essere con qualcuno e di qualcuno, ecco giungere una pienezza diversa, la tranquilla brevità di alcune lettere (Lettera della fedeltà, Lettera dalla cenere), il concentrato ordine delle riflessioni (Elogio dell’inquietudine), il sereno abbandono della confessione (Istruzioni per l’uso, dove Arminio guarda alla poesia con commossa devozione e fedeltà, e a lei fratello e amante la conduce tra le genti: “Con la poesia non bisogna essere egoisti, oltre che leggerla per sé bisogna leggerla anche agli altri. Anzi, più ci tocca e più nasce spontaneo il desiderio di condividerla. La poesia è un farmaco, ma è anche una malattia, contagiosa e capace di rivelarci a noi stessi, come tutte le esperienze più estreme. È bello leggere poesia in famiglia, farne un’abitudine prima del pranzo e della cena. Oggi si celebra tanto il cibo, ma è raro che lo si preceda con un piccolo antipasto per lo spirito. E non pensiamo alla poesia come una cosa per pochi. Leggiamo le poesie insieme a un barista, a un benzinaio, a un notaio, offriamole a chi ci ama, a chi ha avuto un dolore. Offriamo poesia agli anziani, ai non vedenti, alle persone sole, anche agli animali: la poesia ha molto amato gli animali, e ne è ricambiata”.
Sono le corde allo stesso tempo fragili e possenti di un’arpa quelle che Franco Arminio suona e modula, rendendole esultanti nella gioia del presente e dell’esistente – Lo specchio si è rotto/Il cielo è in frantumi. A noi è toccata la parte con le nuvole; […] Se mi abbandonate/io passeggio sull’orlo del vostro silenzio/Guardo. Scrivo. Festeggio ogni giorno l’arrivo nel mondo; Molti animali/iniziano il loro lavoro/prima che nasca il sole. Penso ai ragni, ai poeti, ai fornai – poi dense di struggimento nello scorrere impetuoso del tempo e in quell’eterno e sfuggente battito di ciglia che è l’amore – Forse ogni amore/ha un solo giorno/una sola occasione. Forse i grandi sentimenti/sono occasioni./Difficile che tu possa ritrovare/la farfalla che hai visto/il giorno prima – e ancora gonfie di trattenuto dolore per la morte inesorabile di ciò che è vicino, che appartiene, cui dobbiamo quel che siamo e che sbiadisce e scolora come la memoria offesa da un male per il quale non esiste cura – Il sangue venoso/delle rose autunnali,/la gatta che ha figliato/nella strada che ormai è un museo/delle porte chiuse./Mi siedo su una panchina,/trovo una vertebra,/una vecchia sciarpa, un occhio./È il paese che mi offre la sua fine.
Resteranno i canti è un libro di straordinaria potenza, il frutto d’oro di un autore unico, che una volta conosciuto è impossibile dimenticare. Resteranno i canti è un lucente diamante.
Fatevi un dono, leggetelo.
La poesia è una lucciola
alle due del pomeriggio.