Recensione di “Bussola” di Mathias Énard
“L’Oriente è una costruzione dell’immaginario, un insieme di rappresentazioni in cui ciascuno, ovunque si trovi, attinge a proprio piacimento. È ingenuo credere […] che questo scrigno di immagini orientali sia oggi peculiare dell’Europa. No. Questo patrimonio di immagini è accessibile a tutti e tutti vi aggiungono nuove figure, nuovi ritratti, nuove musiche, frutto della loro produzione culturale. Algerini, siriani, libanesi, iraniani, indiani, cinesi attingono a loro volta a questo forziere, a questo immaginario […]. Le principesse velate e i tappeti volanti della Disney possono essere visti come ‘orientalisti’ o ‘orientaleggianti’; in realtà corrispondono all’ultima espressione di questa recente costruzione di un immaginario.
Non a caso quei film sono non soltanto autorizzati, ma addirittura onnipresenti in Arabia Saudita. Tutti i cortometraggi didattici (che insegnano a pregare, a fare il digiuno, a vivere da buoni musulmani) li copiano. La pudibonda società saudita contemporanea è un film di Walt Disney. Il wahabismo è un film di Walt Disney. Sicché anche i cineasti che lavorano per l’Arabia Saudita aggiungono immagini al patrimonio comune […]. La decapitazione pubblica, quella con la spada ricurva e il boia vestito di bianco, o quella ancora più agghiacciante dello sgozzamento seguito da decollazione. Anche questa è il frutto di una costruzione comune a partire da fonti musulmane trasformate da tutte le immagini della modernità. Simili atrocità prendono posto in questo mondo immaginale; proseguono la costruzione comune. Noi europei la vediamo con l’orrore suscitato dall’alterità; ma è un’alterità altrettanto spaventosa per un iracheno o uno yemenita. Anche ciò che respingiamo, ciò che odiamo riaffiora in questo mondo immaginale comune. Ciò che in quelle decapitazioni atroci noi identifichiamo come ‘altro’, ‘diverso’, ‘orientale’, è ‘altro’, ‘diverso’, ‘orientale’ anche per un arabo, un turco o un iraniano”. Cos’è dunque l’Oriente? Cos’è davvero? Uno specchio? Il riflesso di sé e assieme una scintilla dell’altro da sé che tuttavia è altro solo in apparenza, poiché nella sostanza, nell’essenza, contribuisce proprio alla definizione di quel sé che è il principio dell’autocoscienza, il primo gradino del sapere? Cos’è quell’Oriente che l’Occidente ha senza sosta avvicinato e combattuto e amato e devastato e stretto tra le braccia? Cos’è quel lato oscuro del mondo, quell’intreccio di pulsioni, di fascino arcano, di straripante bellezza, di silenzi immensi e d’orrore, di profondissima cultura e di poesia immortale, di suoni che l’Occidente riscopre ogni volta che si imbatte, archeologo di sé, studioso della propria anima, linguista della propria voce, in qualche nascosta armonia del deserto, nel lento, doloroso richiamo alla preghiera collettiva che si sgretola nel vento e così moltiplica, come pioggia, il suo fiato?
Forse l’Oriente è quella meta irraggiungibile, e proprio per questa ragione continuamente rinnovata, cantata da Pessoa, quel luogo di una geografia intima e universale che per sua stessa natura è al di là dell’Oriente, di qualunque Oriente, che dà asilo al Cristo d’Occidente e al Dio di ogni uomo, che è ciò che hanno vagheggiato tutti gli amanti di quella terra, generazioni di studiosi, di avventurieri, di folli; ed è in questo Oriente disegnato sulla sabbia, raccolto e custodito come una confessione, sfuggente come un sogno vanamente inseguito al risveglio, enigmatico come una mappa del tesoro i cui indizi sono dappertutto, nelle opere dell’iraniano Sadeq Hedayat, nel lavoro straordinario del diplomatico e orientalista austriaco Joseph von Hammer-Purgstall , ne La pelle di zigrino di Balzac, nella musica di Listz, nell’asprezza critica di Edward Said, cosmopolita per nascita e per scelta, nella feroce sete di vita di Annemarie Schwarzenbach e ancora dispersi in mille e mille rivoli; è in questo Oriente studiato, pensato, immaginato, rincorso a più riprese di Paese in Paese, di città in città (Istanbul, Vienna, Teheran, Damasco, Aleppo, Parigi) che Mathias Énard si immerge nel suo travolgente Bussola (In Italia pubblicato da E/O nella traduzione di Yasmina Mélaouah), malinconico romanzo d’amore e allo stesso tempo saggio di impressionante erudizione sulle differenze e le diversità (apparenti e reali) di civiltà e storie le cui radici comuni abbiamo forse con troppa leggerezza dimenticato. L’unità di tempo (una notte insonne del protagonista dell’opera di Énard, il musicologo viennese Franz Ritter) permette allo scrittore francese di dare il massimo respiro alla sua scrittura rigogliosa, alla sua superba raffinatezza stilistica, che egli sposa a un’erudizione non comune, portando con sé il lettore in un viaggio che avvince e stordisce, che lascia senza fiato, che non prevede riposo né ristoro perché non può che terminare dove termina tutto quel che vive, nella fine, nella morte, nel sacrificio ultimo, che è ragione e coerenza anche del suo più puro contraltare, l’amore.
Nei panni di un Ritter minato dalla malattia, dalla solitudine e dal rimpianto, imprigionato nella tela di ragno del ricordo della collega Sarah, orientalista entusiasta, studiosa e ricercatrice di non comune valore amata disperatamente, Énard narra come in preda a una febbre, con urgenza, con l’impazienza di un tossicodipendente che annega nella parola, nel cortocircuito della riflessione continuamente rinnovata, il dolore insopportabile dell’astinenza, l’horror vacui del silenzio; e non importa che il suo filo d’Arianna non conduca alla salvezza ma esattamente al centro del labirinto, perché è solo nel luogo in cui autenticamente si è sé che si può sperare di scorgere l’altro.
Bussola è, semplicemente, un romanzo magnifico, una lettura certo impegnativa ma tutt’altro che un incidente di percorso nella produzione di questo autore (a giudizio di chi scrive uno dei maggiori tra i viventi), come invece ha sottolineato non poca critica. Énard si misura con la complessità senza mai avere la pretesa di dominarla; di fronte a essa, anzi, egli si arrende, ma nel modo in cui lo fa la letteratura, consegnandosi senza riserve, offrendo il proprio limpido sguardo agli occhi spietati di Medusa.
Eccovi l’incipit. Buona lettura.
Siamo due fumatori d’oppio ognuno dentro la sua nuvola, non vediamo niente fuori, e soli senza mai capirci fumiamo, siamo volti agonizzanti in uno specchio, un fermo immagine cui il tempo dà l’illusione del movimento, un cristallo di neve che scivola su un bioccolo di brina di cui nessuno coglie i complicati grovigli.