Recensione di “I racconti di Kolyma” di Varlam Salamov
Kolyma, Siberia. Una terra spoglia, coperta dai ghiacci per undici mesi l’anno, dove la temperatura arriva a toccare anche i sessanta gradi sotto zero e lo sputo gela in aria. È qui che negli anni più bui dello stalinismo vengono deportate decine di migliaia di persone, chiuse in campi di lavoro che in nulla differiscono dai lager nazisti e sfruttate in ogni modo possibile per disboscare, costruire strade, estrarre minerali (oro soprattutto) dai giacimenti.
In questo scenario di orrore e di morte finisce anche Varlan Salamov. È il 1937; lo scrittore ha trent’anni e deve scontare una condanna per “attività controrivoluzionaria trockista”. Alla Kolyma Salamov rimarrà fino al 1953; riuscirà a sopravvivere, e soprattutto a non smarrire la propria umanità, cosa che in quella propaggine d’inferno fatta di nebbia gelida, cibo scarso, lavoro massacrante e violenza fisica e psicologica continua, equivale a un miracolo. È grazie a questo miracolo che sono nati I racconti di Kolyma, viaggio allucinante in quell’abisso di depravazione e atrocità che l’uomo, se messo nelle condizioni di farlo, è perfettamente in grado di concepire, realizzare e infliggere al suo prossimo.
Come ben scrive nella prefazione dell’opera Irina P. Sirotinskaja (i virgolettati presenti sono dell’autore), “Il lettore di questo libro deve farsi carico di una grande fatica spirituale. Non basta la semplice lettura […]. Disumana, tremenda è la verità sui campi della Kolyma. Ancora più tremenda è la verità sull’uomo che si rivela in quelle condizioni estreme. Con quale facilità l’uomo rinuncia alla sottile pellicola della civiltà, «con quale facilità l’uomo si dimentica di essere un uomo» […].«C’è una profondissima non-verità nel fatto che il dolore umano divenga oggetto dell’arte, che il sangue vivo, il tormento, il dolore appaiano sotto forma di quadro, poesia, romanzo. Questo è un falso, sempre. Nessun Remarque restituirà il dolore e la sventura della guerra. Peggio ancora è che scrivere significhi per l’artista allontanarsi dal dolore, alleviare il dolore, il proprio dolore, dentro. Anche ciò è male. Questo libro è indirizzato all’anima di ogni uomo. Salamov, intenzionalmente, rifugge ogni meditata letterarietà «sacrilega in un testo come questo». Egli esige che il lettore prenda parte alla creazione, al dolore, alle emozioni, all’ira. È illimitatamente sincero, illimitatamente veridico. Spietatamente veridico”.
I racconti di Kolyma (in due volumi in Italia pubblicati da Einaudi nella traduzione di Sergio Rapetti) non è solo una preziosissima testimonianza di quel che ha prodotto una delle più sanguinarie e disumane dittature del Novecento, è un libro fondamentale, ineludibile per chiunque si interroghi su chi, su cosa sia l’uomo.
L’ha ribloggato su l'eta' della innocenza.