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A Galaad

Recensione di “Il racconto dell’ancella” di Margaret Atwood

Margaret Atwood, Il racconto dell’ancella, Tea

Si racconta di un metodo sottile e brutale di tortura inflitto ai prigionieri di guerra: la distruzione dei documenti d’identità. Nulla, a prima vista, che abbia a che fare con il concetto a tutti noto di violenza, di brutalità, la cui connotazione è squisitamente fisica, legata a filo doppio a forme di dolore percepibili dai sensi, eppure, malgrado ciò, un’azione dalle conseguenze terribili; un gesto semplice, quello di strappare un foglio di carta, un documento, che ha il potere di distruggere una persona, di degradarla a uno stato che non ha più nulla di umano, di derubarla, una volta per sempre, di ciò che la caratterizza, la distingue da tutti gli altri.


Ed è esattamente in questo stato di sudditanza, di più, di annullamento, che si presenta a noi Difred, protagonista e voce narrante del celebre romanzo distopico di Margaret Atwood intitolato Il racconto dell’ancella. Difred, letteralmente colei che appartiene a un uomo chiamato Fred, è una donna, o meglio un’ancella, o più precisamente ancora un corpo, una porzione di corpo a disposizione dei rappresentanti delle più alte sfere della gerarchia al potere (siamo in America, in un futuro non meglio precisato, all’indomani di guerre devastanti che hanno rivoluzionato la geopolitica del Paese, in uno stato ferocemente teocratico chiamato Repubblica di Galaad retto dai militari e sottoposto agli ossessivi controlli della polizia segreta, custode di una rigidissima moralità sessuale) affinché venga utilizzata, nel corso di cerimonie definite in ogni dettaglio, per donare figli a famiglie colpite da una sterilità diffusa. Sottratta a se stessa, Difred lotta e resiste per non perdersi, per non soccombere, fingendo ossequio al nuovo ordine, annullandosi come prevede ciò che le è stato insegnato (attraverso il lavaggio del cervello, la propaganda, l’ossessiva ripetizione di slogan e parole d’ordine, la costrizione fisica), immergendosi fino in fondo nel ruolo di ancella e nello stesso tempo ribellandosi a tutto questo attraverso la forza del ricordo, trattenendo frammenti della sua vita passata, della sua vita di prima, quando lei, donna tra altre donne, aveva un marito, una figlia, un’esistenza da rivendicare. Di questi suoi anni, intervallati dalla ricostruzione di come tutto sia finito, di come l’incubo abbia dapprima preso piede e infine trionfato, trasformando l’oggi in un eterno presente fatto di nulla (alle ancelle è proibita qualsiasi attività a esclusione della spesa settimanale, compito da svolgere obbligatoriamente in compagnia di un’altra ancella, con la quale non è possibile conversare in libertà) e infine persino di come esista e combatta un movimento clandestino di ribellione a Galaad, Difred racconta con accenti di commossa lucidità.

Sono pagine intrise di dolore, paura e tenebra quelle che nelle quali Difred/Atwood svela se stessa, pagine che denunciano la tragica disumanità cui si condanna qualsiasi sistema legittimi se stesso in nome di un’inattaccabile superiorità etica oltre a evidenziare come, sventolando l’ipocrita vessillo di una purezza impossibile da raggiungere si giunga a istituire nient’altro che forme di schiavitù, piramidi sociali che sono la più spietata rappresentazione di quel che accade quando pochi agiscono per il bene di tutti: che questo irraggiungibile bene, per la grande maggioranza è semplicemente il peggiore dei mali possibili. Margaret Atwood non perde tempo in spiegazioni, non offre perché, ragioni alla situazione che descrive; i fatti sono quelli che presenta, quasi a sottolineare che una simile realtà è troppo perversa per rispondere a un disegno razionale. Le ancelle, la loro esistenza, non sono che l’ennesima dimostrazione di quanto l’uomo sia lupo all’uomo e non invece fratello, di come la sua natura sia allo stesso predatoria e vile e perciò abbia bisogno di una giustificazione, di una facciata (talvolta così elaborata da prendere la forma di un’organizzazione sociale complessa) che gli consenta di lasciare briglia sciolta alla propria animalesca istintualità. La scrittrice canadese, che in tutti i suoi romanzi non si sottrae alla crudeltà ma sembra anzi ricercarla (in qualche caso perfino eccedendo nella maniera, in architettura non del tutto autentiche), qui ne smaschera i meccanismi evidenziando in qualche modo la sua ineluttabilità. All’essere umano naturalmente buono di certo pensiero filosofico Atwood contrappone una teoria opposta, un punto di vista oscuro da cui si vedono soltanto macerie. È un sorgere e un moltiplicarsi d’ombre che soffoca anche la resistenza a esse; non si lotta, infatti, in virtù di una coscienza, di un residuo di pietà, di un sentimento, ci si contrappone per una semplice legge di equilibrio, per un principio di alternanza, lo stesso che alla notte fa seguire il giorno.

Eccovi l’incipit. La traduzione è di Camillo Pennati. Buona lettura.

Si dormiva in quella che un tempo era la palestra. L’impiantito era di legno verniciato, con strisce e cerchi dipinti, per i giochi che vi si effettuavano in passato; i cerchi di ferro per il basket erano ancora appesi al muro, ma le reticelle erano scomparse. 

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