Recensione di “Il 42° parallelo” di John Dos Passos
“Il 42° parallelo ha un inizio cupo. Travolgente nella tristezza che spalanca davanti al lettore. Ai cui occhi si affaccia un paesaggio miserabile: baracche di legno, strade fangose, il freddo, gli effluvi, la salute malcerta degli abitanti. È l’emigrazione – in questo caso irlandese – che paga il suo tributo. E il romanzo comincia con una storia di lotta e di disperazione: «Quell’inverno ci fu uno sciopero alle Manifatture Chadwick e papà perse il posto».
Essenziale come un colpo di martello. Fateci caso. Uno dei motori che accendono le storie di Dos Passos è l’improvviso restringersi dell’orizzonte. La chiusura prospettica che liquida un individuo, una famiglia, una città. Eppure, è solo dall’azzeramento improvviso del presente che il futuro può davvero riaprirsi, donare quella speranza che ogni anima in pena invoca. I personaggi di Dos Passos ne sembrano consapevoli, per questo si mettono in moto: con rabbia, disperazione, curiosità e ambizione. C’è un solerte dinamismo che li anima e rende il loro essere squisitamente americani il tratto distintivo dall’Europa. Anche se, poi, molti fili rinviano al Vecchio Continente. Al suo laboratorio di cultura sociale, all’esperienza marxista e sindacale, che proprio negli anni Venti e Trenta mostra ancora il proprio potere di seduzione sugli intellettuali americani. Da tutto ciò deriva il temerario indottrinamento politico vissuto da certi personaggi del 42° parallelo. La loro scelta etica. Sebbene Dos Passos non scada nelle forme del propagandismo letterario, ha, tuttavia, alle spalle un solido movimento di opinione le cui punte letterarie sono rappresentate dai romanzi di Upton Sinclair, Jack London e dagli scritti di John Reed. L’America degli Anni Venti e Trenta vede espandersi il culto del proletariato, i cui malumori intridono le pagine di Dos Passos”. Nella prefazione di Antonio Gnoli al bellissimo romanzo di John Dos Passos, atto primo della sua trilogia americana, dato alle stampe nel 1930 e in Italia pubblicato da BUR nella traduzione deliziosamente inattuale di Cesare Pavese, a emergere con forza sono i contenuti, i temi portanti del lavoro dello scrittore statunitense; in una parola l’intrinseca robustezza argomentativa del suo raccontare. Dos Passos, insomma, almeno in questa fase del suo percorso letterario e umano, è scrittore politico e critico sociale, è narratore impegnato, che lotta in prima linea, è autore che per ciò che scrive può senza scandalo essere accostato a un contemporaneo come il portoghese Saramago – (Il 42° parallelo e Cecità sono forse i due maggiori romanzi eminentemente politici del XX secolo) – ma, oltre a ciò, e proprio nelle travolgenti pagine del 42° parallelo, è sperimentatore ardito delle possibilità espressive del linguaggio, è inventore di codici, è alchimista della narrazione.
John Dos Passos, infatti, non si limita a intrecciare storie differenti e a farne in qualche misura i simboli della nascita di una nazione (e non è un caso che il film di Griffith venga espressamente citato) ma guarda al Paese, lo esplora, lo interroga e lo giudica scegliendo una polifonia di voci che, pur essendo realtà, interrompono la concretezza dei vissuti singoli trascinando le esistenze di ciascuno nella vastità quasi incomprensibile del mondo tutto. Così, alle vicende dei principali caratteri (il tipografo socialista Mac, J.W. Moorehouse, Janey, stenografa, ed Eleanor, ambiziosa costumista, scenografa e arredatrice d’interni) egli alterna capitoli spesso brevi intitolati Cine-giornale (e proprio con un Cine-giornale il romanzo ha inizio), finestre spalancate su quel che accade dappertutto, negli Stati Uniti e al di là dell’oceano, eco che si moltiplica nell’effervescenza degli annunci radiofonici, nell’esaltazione degli articoli di stampa, nelle frivolezze in rima baciata delle canzoni più in voga, e ancora a questi fa seguire altri intermezzi, che chiama Occhio fotografico, dove il respiro si accorcia d’improvviso, il punto di vista torna a essere quello del singolo ma il racconto ha il serrato intimismo e il disordine acuto, febbrile di un pensiero che sembra sfuggire a colui che lo sta pensando (che forse è l’autore, forse un archetipo) e che senza sosta registra, abbandonando ogni particolare al duplice capriccio della memoria di chi racconta e dell’attenzione di chi legge.
Il 42° parallelo, dunque, è davvero lo schiudersi alla luce di una nazione, un esempio di storia, ed è un esempio fulgido e paradigmatico perché mostra nella nudità spesso violenta scandalosa del mero fatto che ogni nascita non è che un precipitare nel caos.