Recensione di “La resurrezione di Maltravers” di Alexander Lernet-Holenia
Coltissimo, raffinato, mai banale. Snob (quanto basta), ironico, beffardo, crudele. Il suo sarcasmo ha la noncuranza dell’abitudine e la letale efficacia del curaro; la sua prosa, una sorta di felicissimo innesto tra il rigore stilistico di Cicerone e il motteggio arguto di Oscar Wilde, fa pensare a una creatura partorita in laboratorio, a un Frankenstein, eppure non c’è ombra di forzatura nei suoi romanzi, il meccanicismo è bandito, il fluire della narrazione regolare e placido come quello delle acque di un fiume.
Nel panorama letterario del Vecchio Continente, l’austriaco Alexander Lernet-Holenia (1897-1976) è rubricato alla voce curiosità per iniziati; viene considerato un fenomeno bizzarro, certamente originale, senza dubbio divertente, ma talmente fuori dagli schemi da poter affascinare solo uno sparuto manipolo di lettori. E se non fosse così? Lernet-Holenia, s’intende, non è uno scrittore semplice, è consigliabile avere qualche buon romanzo alle spalle prima di avvicinarlo, ma non è davvero necessario essere topi di biblioteca o titolatissimi professori universitari per dedicarsi alle sue opere. Perché come ogni cavallo di razza che si rispetti Lernet-Holenia sta ben attento a non prendersi troppo sul serio, e ai lettori non intende insegnare nulla; si limita a offrire loro i suoi lavori come se si trattasse di un dono.
Eccovi l’incipit de La resurrezione di Maltravers, splendida rilettura del tema della seconda possibilità. Le opere di Alexander Lernet-Holenia sono pubblicate da Adelphi.
Il conte Maltravers, dopo aver scontato una pena detentiva di ventidue mesi, stava viaggiando da Pest a Jablonitz, via Waitzen, Neuhäusl e Sered. Nei pressi di Szob varcò il confine. A Galanta cambiò treno. Subito dopo Sered cominciò a piovere, ma ben presto la pioggia cessò. Maltravers, che pure era solo nello scompartimento, rimase con il cappello in testa, le mani abbandonate in grembo. Era di statura media, scarno, col volto di un pallore olivastro. Aveva sessantatré anni. Guardava fuori dal finestrino, ma non era possibile capire se vedesse davvero ciò che guardava. Qualche minuto prima di arrivare a Jablonitz tuttavia si alzò, indossò il cappotto, uscì nel corridoio e attese – come uno che fosse avvezzo ad attendere a ore fisse.