Recensione di “Il posto” di Annie Ernaux
C’è un momento in cui la diversità, che tutti contraddistingue, si fa estraneità? C’è un momento in cui questa semplice caratteristica, questo dato di fatto, diviene la perversione di se stessa, si tramuta in malattia, in qualcosa di odioso, detestabile, in conflitto? Esiste questo momento? È distinguibile da tutto ciò che da esso si origina? Come lo si scopre? Come lo si isola? In che modo lo si studia, lo si analizza, lo si decifra?
La diversità, brandita come un’arma, j’accuse gettato addosso all’altro, agli altri, a chiunque, divinità multiforme invocata per proteggersi, per difendere la propria unicità, il proprio inviolabile io sono dalla montante marea d’uniformità che è tutti gli altri, patetico soliloquio di sussurri ossessivamente ripetuti come formule magiche, come scongiuri, nessuno capisce, nessuno comprende davvero, solo io, solo io, è il fiume carsico che scorre lungo le intensissime, dolorose, laceranti pagine de Il posto di Annie Ernaux, autobiografia ruvida giocata sul filo di una memoria sospesa tra affilata pietà e implacabile raziocinio. La scrittrice francese racconta di sé specchiandosi nei frammenti di ciò che non è e che pure ha contribuito a fare di lei la donna che lentamente emerge da questo suo lavoro di faticosa autocoscienza; quei frammenti altro non sono se non i suoi genitori, e prima di loro i padri e le madri di suo padre e di sua madre, vicinissimi nella misura di un tempo universale che si conta in millenni, in decine, centinaia di migliaia, di milioni di anni e nonostante ciò irraggiungibili nella percezione fin troppo umana del presente e del passato, nell’esperienza di condizioni di vita che cambiano senza sosta, rapidi come attimi, impercettibili come battiti di ciglia, tanto improvvisi da far dire a questa donna che si impone la fatica di un ricordo che non sia solo ricostruzione ma ricerca di una ragione, di un perché, che sia rivelazione dell’istante in cui tutto muta, in cui il legame della carne e del sangue da benedizione, da atto d’amore, da eredità, da trasmissione benigna cambia al punto da farsi minaccia, ombra, battaglia, “quando leggo Proust o Mauriac, non credo che rievochino il tempo in cui mio padre era bambino. Il tempo della sua infanzia è il Medioevo”.
Diversità, si diceva. Alterità. Lontananza. L’io sono che si definisce solo ed esclusivamente attraverso tutto ciò che non è. Il padre e la madre della bambina che sono poveri, non ricchi, che non sono borghesi, non sono istruiti, che proprio in quanto non sono e non hanno vorrebbero essere e avere, che a causa di ciò che non riescono a raggiungere desiderano, ma che questo sognare, per restare fedeli alla vita che hanno sempre fatto, alla quale sono legati, che li definisce, che ha dato loro un posto nel mondo, non importa quanto precario, divengono confine, gabbia, prigione: sogno dunque non sono. Sogno dunque sono. Sono colui che sogna le cose che non è, le cose che non ha, la vita che non ha mai vissuto e mai vivrà. La vita come fatica, la vita come sacrificio, la vita come incomprensione, una rete di crudele insensatezza nella cui trama si finisce per restare appiccicati senza volerlo, senza averlo mai veramente voluto. La vita come un meccanismo che non si domina, di cui si è solo un ingranaggio tra i tanti. La vita come immenso, infinito mosaico, arazzo di cui non coglie che qualche insignificante particolare. La vita che si riduce a un urlo strozzato, a uno scatto d’ira, a una collezione d’umiliazioni, a un braccialetto di ricordi dal sapore amaro, la vita, nient’altro che feroce inganno; questo è ciò che emerge dalla prosa asciutta e tesa della Ernaux, che tanto ricorda lo “scandaloso” Albert Camus de Lo straniero. Un procedere di fatti dai quali di tanto in tanto si riesce a trarre una lezione; una scintilla di comprensione nel disordine dell’esistere, luce, nella brevissima parentesi di un lampo, prima che ogni cosa torni nelle tenebre, nella blindata, inaccessibile camera di sicurezza di un mistero che non può essere violato. Così trascorrono gli anni, così Annie da bambina si fa ragazza, poi donna, moglie e madre, mentre i suoi genitori appassiscono per legge di natura senza essere mai stati capaci di andare oltre se stessi, di camminare luoghi sconosciuti, di osservare, al di là della stentata sopravvivenza del proprio orizzonte, un differente orizzonte. Uguali, nella loro diversità rivendicata, ostentata, agitata al vento come un vessillo, a tanti, a tutti.
Eccovi l’inizio del romanzo. La traduzione per l’editore L’Orma, è di Lorenzo Flabbi. Buona lettura.
Ho fatto la parte pratica del concorso per il Capes in un liceo di Lione, sulla collina della Croix-Rousse. Una scuola nuova, con piante verdi nella sala riservata agli amministrativi e al corpo docente, una biblioteca dalla moquette color sabbia. Ho aspettato lì che mi venissero a chiamare.