Recensione de “Il giardino delle bestie” di Erik Larson
La genesi di una tirannide, il disfacimento progressivo della coscienza civile di un popolo, la deriva di una nazione, trascinata in una spirale di sospetto, intimidazione, odio e primordiale violenza.
E le pavide strategie attendiste delle grandi potenze mondiali, sorprese dalla nomina di Aldolf Hitler a Cancelliere della Germania, l’interessata ingenuità di diplomatici e statisti, incantati per proprio tornaconto dalle menzogne pacifiste propalate dai nazisti, e infine, sottile come una lama di luce in una stanza invasa dalle tenebre, lo sguardo severo e impotente di pochi, pochissimi uomini, capaci di vedere, nel marziale incedere delle camicie brune, nel parossismo degli oceanici raduni di partito, nell’ossessiva gestualità del saluto al führer (un tragicomico spettacolo di marionette fatto di braccia alzate al cielo e di tacchi sbattuti l’uno contro l’altro di scatto, e replicato all’infinito in una sorta di ingolfata coazione a ripetere), nella persecuzione degli ebrei, nella promozione del mito della purezza della razza, nelle spietate politiche “sanitarie” del Reich, che prevedevano l’eliminazione dei soggetti “non autosufficienti”, l’emergere di un malato sogno di potere, il canceroso concretizzarsi di un’idea che al proprio centro non aveva più l’uomo, ma soltanto una sua deforme interpretazione.
Questo il quadro – terribile, ma narrativamente di assoluto fascino – delineato nel bellissimo libro di Erik Larson, Il giardino delle bestie, che racconta l’alba del regime hitleriano con gli occhi di un testimone di prim’ordine, l’ambasciatore americano William E. Dodd. Diari personali (dei componenti della famiglia Dodd e non solo) e una messe di altri documenti, tutti elencati nella ricca bibliografia alla fine del volume, costituiscono l’ossatura del libro, che Larson impreziosisce con una prosa raffinata e potente, che scorre fluida dalle drammatiche descrizioni delle atrocità commesse dalle milizie all’impersonale diligenza dei dispacci ufficiali, dalle intimiste riflessioni dei protagonisti (l’ambasciatore, la figlia Martha, entusiasta, al suo arrivo in Germania, della “rinascita” economica e morale avviata nel Paese dalla rivoluzione nazionalsocialista, e ancora giornalisti, scrittori, intellettuali, studiosi di politica, figure di spicco della gerarchia nazista, membri delle diplomazie di altri Paesi), ai reiterati confronti (che di giorno in giorno si facevano sempre più aspri e difficili) tra i membri del governo tedesco e lo stesso Dodd, impegnato con tutte le sue forze a capire quali fossero le vere intenzioni di Hitler e quanto la pace mondiale fosse in grave pericolo.
Scrive Larson nell’introduzione alla sua opera: “Come per la maggior parte della gente, la mia iniziale percezione di quell’epoca si è formata sui libri e sulle fotografie, che mi hanno lasciato la sensazione che il mondo di allora non avesse colore, ma solo gradazioni di grigio. I due protagonisti della mia storia, al contrario, hanno vissuto la realtà nuda e cruda, continuando nel frattempo ad assolvere i doveri della vita quotidiana. Ogni giorno attraversavano una città addobbata di immensi stendardi rossi, bianchi e neri; sedevano negli stessi caffè all’aperto frequentati dalle snelle SS in uniforme nera e di tanto in tanto scorgevano Hitler, un ometto che viaggiava a bordo di una grossa Mercedes scoperta. Ma passavano anche davanti a case con balconi traboccanti di gerani rossi, facevano acquisti nei giganteschi empori della città, organizzavano tè, aspiravano le fragranze primaverili del Tiergarten, il parco principale di Berlino. Avevano rapporti sociali con Goebbels e Göring, in compagnia dei quali cenavano, danzavano e si trastullavano allegramente, finché quando il loro primo anno giunse al termine, accadde un evento che contribuì più di molti altri a smascherare la vera natura di Hitler, e che divenne la chiave di volta per il decennio successivo. Per padre e figlia fu quell’evento a cambiare tutto. Questa è un’opera di non-fiction. Tutto il materiale fra virgolette è ricavato da lettere, diari, memorie o altri documenti storici. Nelle pagine che seguono non ho certo tentato di scrivere l’ennesima epopea del periodo in questione. Il mio scopo era di natura più intima: far conoscere quel mondo del passato attraverso le esperienze e le sensazioni dei miei due protagonisti, padre e figlia, che, giunti a Berlino, intrapresero un viaggio di scoperta, trasformazione e, infine, di profondo dolore”.
Al di là del passato consegnato ai libri di storia, delle cose accadute, della memoria collettiva sulla tragedia del nazismo e del secondo conflitto mondiale, Larson riesce perfettamente nel suo intento: la scoperta, l’intima trasformazione (di Dodd, e ancor più della figlia) e il loro profondo dolore sorgono da pagine redatte con piena sincerità, con cristallina onestà intellettuale; certo, la scrittura di Larson è in più di un’occasione partigiana, ma la coscienza dei suoi personaggi evolve per proprio conto, sedotta e sconvolta dal semplice succedersi dei fatti, non da stravolgimenti della realtà arbitrariamente decisi dall’autore. La severa condanna morale del nazismo non impedisce a Larson di dimenticare gli errori e le responsabilità dell’Europa e del mondo: l’inutile umiliazione inflitta alla Germania dal Trattato di Versailles e l’isolamento cui sono state costrette le poche voci (in primis quella di Dodd) che raccontavano quel che davvero stava succedendo in Germania, e che presto sarebbe successo nel resto del mondo.
Il giardino delle bestie è il dolente diario di una sconfitta, è la memoria dell’abisso in cui l’umanità è precipitata, ed è la speranza che di questo abisso e del delirante canto di sirena che da esso incessantemente si leva, non ci si dimentichi mai.
Eccovi l’incipit. Buona lettura.
Era frequente che gli emigrati americani si presentassero al consolato degli Stati Uniti a Berlino, ma non nelle condizioni dell’uomo che vi giunse giovedì 29 giugno 1933. Era Joseph Schachno, un medico trentunenne di New York che fino a poco tempo prima aveva esercitato la professione in un sobborgo di Berlino. Ora, completamente nudo, era in piedi in uno degli ambulatori con le tende divisorie al primo piano del consolato, dove, in giorni di normale routine, un chirurgo convenzionato visitava chiunque richiedesse un visto per emigrare negli Stati Uniti. L’uomo aveva la pelle scorticata su buona parte del corpo.
Due funzionari fecero il loro ingresso nell’ambulatorio. Uno era George Messersmith, console generale per la Germania dal 1930 (non aveva alcuna parentela con Wilhelm “Willy” Messersmith, l’ingegnere aeronautico tedesco). Come rappresentante diplomatico di grado più alto di stanza a Berlino, Messersmith sovrintendeva ai dieci consolati americani distribuiti nelle varie città tedesche. Al suo fianco c’era il viceconsole, Raymond Geist. Di norma Geist era freddo e imperturbabile, ma Messersmith notò che quel giorno era pallido e profondamente scosso.