“Mi sento parte di quella razza in via di estinzione che pensa che uno scrittore vada letto e non ascoltato […]. Molto spesso oggi sembra esserci la tendenza a mettere la persona al posto del suo lavoro. A trasformare l’artista che crea in uno che mette in scena, a ritenere più valido, o più reale, ciò che un autore dice a proposito della scrittura, che la scrittura stessa”. È interamente racchiuso in questa dichiarazione il senso del lavoro di William Gaddis, uno dei più significativi protagonisti del Novecento letterario.
Autore originalissimo, sorprendente nelle scelte stilistiche, di impressionante acutezza nella trattazione dei temi più disparati (di cui ogni volta coglie con infallibile precisione l’essenza), Gaddis riesce a esprimere nel modo più efficace la circolarità perfetta tra forma e sostanza. La sua magnifica, straripante creatività non è mai puro esercizio estetico, non conosce vanità, non cerca plauso o ammirazione, ma viene messa al servizio di narrazioni solide, potenti, incisive, che investono il lettore e lo travolgono provocandolo, sollecitandolo, scuotendolo. La scrittura, per William Gaddis, è prima di tutto sincerità, è coraggio, è una ben precisa presa di posizione, un chiaro, inequivocabile punto di vista sul mondo; in questo senso, leggere Gaddis equivale ad ascoltare Gaddis, a parlare con lui come se fosse accanto a noi. Egli racconta, sostenuto da un talento purissimo, da un gusto raffinato e perfido per l’ironia, da un’attrazione bizzarra e geniale per l’inconsueto e il grottesco (sotterranee correnti energetiche della vita, presenti eppure invisibili agli occhi dei più), e dalla sua penna prendono forma vicende a prima vista arruffate, caotiche, dominate da un’irrazionalità così malata da sembrar pazzia, che però poco alla volta rivelano se stesse, le proprie verità terribili e meschine, i propri segreti imbarazzanti e odiosi, la propria realtà imperfetta e colpevole.
È la tragica commedia della modernità (e dell’uomo che la abita) l’oggetto della “prosa speculativa” dello scrittore americano, due volte vincitore del National Book Award: impietoso, severo, e nello stesso tempo irriverente, divertito, lieve quasi fosse un’immortale maschera shakespeariana, Gaddis colpisce al cuore le fondamenta stesse del nostro vivere civile, denunciandone la sostanziale inconsistenza, di più, la radicale falsità. La dialettica verità-menzogna, con la prima ridotta a ombra impotente della seconda, il cui imperio è incontrastato e i cui sudditi si contano a milioni, è il costante controcanto delle sue opere e nel bellissimo romanzo Gotico americano, pubblicato nel 1985, assume i contorni del conflitto tra scienza e religione. A rappresentare la prima, il geologo dal misterioso passato McCandless, proprietario di una grande e fatiscente casa in stile gotico-americano affittata a Elizabeth Booth, figlia di un ricco magnate dell’industria mineraria, e al di lei marito Paul, reduce dal Vietnam ed ex portaborse del suocero, alle prese con mille affari poco puliti e costantemente alla ricerca di denaro; a dar voce alle istanze della seconda, il fanatico reverendo Ude, fondatore di una missione in Africa. Come Paul, non a caso suo socio in affari, anche Ude, impegnato in una battaglia campale contro Satana, non è mosso da motivazioni limpide; sembra infatti che la sua opera di apostolato nasconda interessi molto concreti. Gaddis, magnifico direttore d’orchestra, trasforma in magistrale sinfonia la cacofonia di voci e interessi diversi (anzi, divergenti), materia prima del romanzo; gli insistiti dialoghi diretti rendono quasi superflua la descrizione d’ambiente e permettono al lettore di concentrarsi sul carattere dei personaggi, simbolo del disordine etico in cui viviamo.
Ed ecco che nel reciproco, vano rincorrersi dei protagonisti del romanzo – Elizabeth, condannata alla solitudine dalla morte del padre e dall’ottusa indifferenza del marito, che a sua volta lamenta di essere incompreso, abbandonato; McCandless, che compare in casa quando nessuno lo attende e per converso sparisce tutte le volte in cui la sua presenza è richiesta; il reverendo Ude, la cui lontananza fisica è sottolineata dagli infervorati colloqui telefonici di Paul, impegnato a organizzare, anche per suo conto, quella che ha tutta l’aria di essere una truffa – ogni cosa finisce per andare in pezzi, e quel che si compie è un destino allo stesso tempo osceno e ridicolo, l’assurdo capriccio di un Dio bambino sordo alla misericordia, alla bontà, all’amore.
Gotico americano è un romanzo meraviglioso; un’opera stilisticamente impeccabile, una riflessione di rara profondità e di chiarissimo ingegno. E Gaddis uno scrittore che racconta e si racconta senza paure né reticenze (forse, nel panorama letterario contemporaneo, solo Cormac McCarthy ha la sua stessa radicalità); i suoi libri sono tesori che attendono di essere scoperti; questo, insieme a JR (un assoluto capolavoro già affrontato in questo blog), è uno dei più preziosi.
Eccovi l’incipit (la traduzione, ottima, è di Vincenzo Mantovani, ma se potete leggete Gaddis in lingua originale; egli regala all’inglese le stesse meraviglie espressive che un suo quasi omonimo, Carlo Emilio Gadda, dispensa all’italiano). Buona lettura.
L’uccello un piccione o una colomba? (aveva scoperto che lì c’erano delle colombe), volò per l’aria, perdendo ogni colore in quel po’ di luce che restava. Avrebbe potuto essere la palla di stracci per cui l’aveva scambiato a prima vista, tirata al più piccino dei ragazzi che, là fuori, stava togliendosi il fango dalla guancia dov’era sta colpita, e afferrandolo poi per un’ala lo rilanciava dove uno di loro, con un ramo spezzato come mazza, lo alzava a campanile sulle frasche, lo riprendeva al volo e lo scagliava, in un turbine di foglie, in una pozzanghera lasciata dalla pioggia della notte prima, una specie di volano malridotto che si spiumava roteando a ogni battuta e cozzava contro il cartello giallo di “strada senza uscita” sull’angolo opposto della casa dov’erano finiti a quell’ora del giorno.
Quando squillò il telefono si era già voltata, trattenendo il respiro, e mentre andava a rispondere in cucina alzò gli occhi all’orologio: non ancora le cinque. Era fermo? Il giorno era finito quando il sole tramontava dietro la montagna, il sole o quella cosa sorgente dal fiume che lì passava per tale. «Pronto» disse «chi?… Oh sì, no, no, non c’è, è… No, io no, no. No, io sono… Be’, non sono sua moglie, no, gliel’ho detto. Mi chiamo Booth, non lo conosco nemmeno. Abbiamo appena… Be’ se mi lascia finire! Abbiamo appena affittato la sua casa, non so il signor McCandless, non l’ho mai neppure incontrato. Abbiamo ricevuto una sua cartolina dall’Argentina, tutto qui, Rio? Non è in Argentina? No, era solo una cartolina, con qualche parola a proposito della caldaia, ecco, era solo una cartolina. Mi spiace di non poterla aiutare, c’è qualcuno alla… No, devo andare, arrivederci, c’è qualcuno alla porta…».