Recensione di “Storia del pianto” di Alan Pauls
La vita di un bambino, e poi di un uomo, e quella di un Paese intero. E forse la vita di un bambino, e poi di un uomo, e quella del mondo. La storia, probabilmente incolore (ma è davvero così?), di un singolo e quella di tutti; l’intreccio, improvviso e stupefacente, tra la più comune delle azioni (del tempo trascorso davanti alla televisione in compagnia di un amico) e un evento di straordinaria importanza
(il colpo di Stato in Cile, il bombardamento del Palacio della Moneda, la morte del Presidente Salvador Allende, democraticamente eletto). E la disperazione per quanto sta accadendo che lacera il cuore dei due giovani spettatori, scatenando in uno di loro un pianto inconsolabile e lasciando l’altro, letteralmente, senza lacrime, gli occhi completamente asciutti. Come se la cosa non lo riguardasse. Come se lo lasciasse indifferente. Eppure è proprio colui che non piange, che non riesce a farlo, a soffrire di più; è lui, il protagonista del bellissimo, folgorante Storia del pianto di Alan Pauls (primo volume della Trilogia della perdita, in Italia edito da Fazi nella traduzione di Maria Nicola), a impazzire di dolore per quel terrificante sovvertimento di tutto ciò che è giusto e buono, che lo inonda di ricordi e lo riporta alle molte, troppe storture che hanno segnato la sua vita e con essa, sembra, in qualche misterioso, imperscrutabile e nonostante ciò evidente gioco di corrispondenze, quella del mondo. Pauls, nei panni di questo bambino, poi ragazzo, infine uomo, e ancora bambino, in una circolarità temporale che richiama l’eterno ritorno della natura per indicare che la sola cosa che permane, in tutto ciò che umanamente esiste e che per questa semplice ragione ha inizio e fine, è il dolore, si muove lungo un labirintico andirivieni di ricordi; e il ricordo, per sua natura fluido, in certi passaggi quasi indistinto, nel suo disordinato dipanarsi, dove al grido di un’esperienza particolarmente traumatica segue il sommesso bisbigliare di un’emozione che sembra sul punto di andare perduta ma la cui eco, per quanto flebile, non si spegne, si fa voce universale, battito del cuore di chi, dopo aver tanto pianto nei primi anni della sua vita, un giorno impone a se stesso di farla finita con le lacrime, per non dover più sentirsi dire “Smettila una buona volta di piangere!”, e respiro di altre vite, altre storie che giungono a questo volto asciutto, a questi occhi riarsi, a questo piccolo di quattro anni che, tutt’altro che impaziente di parlare, “passerebbe ore ad ascoltare”.
E queste vite, le vite del mondo, si svuotano dinanzi a lui, e a lui offrono, come doni lasciati ai piedi di una divinità o all’ingresso di un tempio, i propri segreti; piangono al suo cospetto l’infelicissima madre, alla quale il ruolo (per l’appunto quello di madre) cui il matrimonio l’ha costretta provoca soltanto disagio, imbarazzo e sofferenza, il burbero nonno, la fidanzata cilena, di buonissima famiglia, da lui abbandonata all’indomani del colpo di Stato senza una spiegazione, senza un perché (ma che bisogno può mai esserci di un perché dopo le immagini viste in televisione? Come si può non comprendere la sua reazione? Come si può non capire che la responsabilità di quel che è accaduto è di tutti? E se è di tutti, come può non esserlo anche di una famiglia cilena? Una famiglia perbene, senz’altro, ma di destra?), di un cantautore “di protesta” espulso a causa della sua arte, perseguitato in ragione delle sue strofe, dei suoi versi, e da poco riammesso nella terra natia (siamo in Argentina, nei primi Anni Settanta), di un vicino di casa, un soldato, un uomo d’armi, nei confronti del quale egli prova inspiegabilmente tanto attrazione quanto repulsione; e tutte queste lacrime, tutti questi lamenti, tutti questi sospiri sono le lacrime, i lamenti e sospiri della terra intera, di quel che in essa avviene, dei rivolgimenti di portata mondiale e dei piccoli drammi quotidiani; sono la preghiera sommessa e la maledizione lanciata a squarciagola, la stentorea dichiarazione di guerra e l’abbraccio che palpita in un silenzio quasi assoluto; sono il sussultorio procedere delle cose, il suo avanzare per picchi e abissi, sono l’unione impossibile e al tempo stesso concreta, reale, degli opposti e la necessità di coniare una parola nuova per dare espressione (o almeno provarci) a tutto questo: sussurlo. Sussurlo; il disordine di ciò che è, l’irrespirabile aria che non possiamo fare a meno di respirare.
Eccovi l’incipit. Buona lettura.
All’età in cui i bambini sono sempre impazienti di parlare, lui potrebbe passare ore ad ascoltare- Ha quattro anni, o così gli hanno detto.