Recensione di “Vita e opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo” di Laurence Sterne
“Sembra che le case di bambola, perfette imitazioni in scala degli alloggi del ceto borghese, si siano diffuse in Inghilterra sotto
il regno della regina Anna, negli anni che corrispondono alla prima infanzia di Sterne […]. Come è noto, Gulliver è il primo eroe che, che nel mondo moderno, ha sollevato l’interrogativo del rapporto che si instaura fra l’uomo e un universo in scala difforme sia nel senso del gigantesco che del miniaturizzato. Rispetto a un mondo in miniatura, egli ha mostrato, in particolare, che la dimensione ingombrante del corpo esclude ogni esperienza di fisico contatto, facendo di quell’universo un oggetto di contemplazione astratta e una sorgente di piacere mentale: la scena miniaturizzata perde peso e fisicità e tende verso la condizione asettica […]. In questo senso (ma non solo in questo), Sterne è il seguace di Swift […] perché il lettore di Tristram Shandy viene invariabilmente catturato dalla cura ingegnosa e certosina con cui due dei protagonisti, lo zio Toby e il caporale Trim, ricostruiscono in scala, sul pollaio dietro casa, la cittadella di Namur e rivivono mentalmente le loro esperienze di guerra e le loro ferite […]. Alle fortezze in miniatura di Toby, il fratello Walter supplisce con la totale, acritica dedizione non solo a una cultura antiquaria e libresca che affonda le proprie radici nella scolastica medievale, bensì ai detriti, alle minuzie di quella tradizione […]. Ora egli modella la propria esistenza secondo i parametri di una cultura che non ha alcun contatto con la realtà”. Nella ricca prefazione a Vita e opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo, capolavoro di Laurence Sterne (in Italia edito da Rizzoli con traduzione di Giuliana Aldi Pompili), Attilio Brilli punta l’attenzione da un lato sulle fondamenta letterarie di quest’opera rivoluzionaria e scintillante – il citato Swift, ma anche, e forse soprattutto, il torrenziale e irresistibile Rabelais – per poi, guardando ai personaggi creati dall’autore, riflettere sulla doppia fuga dal vero, da ciò che è; autentica, per quanto possa essere davvero autentico ciò che è finzione letteraria, quella della famiglia Shandy, da Sterne ritratta con i vivacissimi colori della burla, del gioco, dell’iperbole e dell’assurdo; illusoria quella di Sterne, che nella costruzione di un romanzo “diverso da ogni altro”, dove a raccontare di sé è qualcuno non ancora nato, a governare la storia, o meglio l’intreccio, il viluppo di storie che è il Tristram Shandy, è un racconto che di continuo torna sui suoi passi, si apre in mille rivoli, per ogni passo in avanti ne compie tre all’indietro, si fa narrazione regressiva esplorando le possibili cause di un evento appena esplicitato e subito abbandona quella strada maestra per incamminarsi lungo un sentiero appena accennato, aperto magari da una frase cui non si è fatto caso, o addirittura da un’unica parola, dipinge il ritratto di una modernità del tutto assente dalle sue pagine ma ben presente intorno al romanzo, quasi che lo scritto fosse una cittadella assediata dal mondo, dal tempo, e Sterne il più acuto osservatore di quel tempo e di quel mondo, talmente acuto da riuscire a parlarne senza menzionarlo mai, facendolo sorgere, quasi fosse una magia, dalla folle vita di una famiglia chiusa nella propria tenuta.
Buffone di corte ben più sapiente di coloro dinanzi ai quali si esibisce, cantore di avventure che nascono e muoiono in un salotto, in camera da letto, in corridoi percorsi a passi svelti, o cauti, o rocambolescamente arruffati, cacciatore di nuvole e sogni che nascondono verità spesso sgradevoli gettate in faccia al pubblico nell’innocua (e illusoria) veste di brillantissime battute di spirito, di arguzie e astuzie dialettiche spogliate di ogni nobiltà e piegate al puro gusto dello scherzo, al riso graffiante e liberatorio, Laurence Sterne al tempo stesso è e non è Tristram Shandy; egli è la sua voce, è il chiocciare stridulo di colui che doveva essere, al pari di Trismegisto (perché così si sarebbe dovuto chiamare per volontà del padre sfortunatamente fraintesa), tre volte grande tra gli altri uomini, ed è il compiaciuto discorrere di chi, perfettamente camuffato tra i proprio simili, ne coglie difetti, debolezze, miserie e ne fa meraviglia. Una meraviglia che non può essere cura per l’uomo, che non può arginare il naufragio cui la sua natura lo destina, ma è forse la salvezza, l’universale salvezza addirittura, un compito che si può chiedere alla letteratura, al romanzo, fosse anche, com’è in questo caso, il capostipite del romanzo moderno?
Eccovi l’incipit. Buona lettura.
Vorrei che mio padre e mia madre, o, meglio, tutti e due, come era loro dovere, avessero pensato a quello che facevano, allorché mi misero al mondo.