Recensione di “Strada sdrucciolevole” di Max von der Grün
“Sempre mal vista e anatemizzata da molta sinistra, la letteratura operaia è dura a morire. Le ragioni della condanna possono essere molte e valide, ed esse sembrano essere confermate
dall’esperienza, che è una conferma decisiva, poiché, come dice il detto inglese caro ad Engels, la prova del pudding sta nel mangiarlo. Il pudding della letteratura operaia non ha un buon sapore. Resta il fatto che la letteratura operaia esiste e che nessuno ne contesta l’importanza, anche se non è convinto che essa sia – o sia ancora – il soggetto potenziale di una rivoluzione atta a por fine a ogni sfruttamento dell’uomo sull’uomo. E resta il fatto che nella produzione letteraria occidentale, almeno quantitativamente gigantesca, non se ne parla quasi mai. In questo romanzo se ne parla”. Presenta così Cesare Cases, nella sua bella introduzione al romanzo, Strada sdrucciolevole di Max von der Grün (In italia pubblicato da Einaudi nella traduzione di Bruna Bianchi), autore, si affretta a chiarire, che “nonostante il nome altisonante che fa pensare a un aristocratico, era operaio (minatore) e figlio di operai”. Perché questa precisazione? Perché i romanzi operai di von der Grün vivono (e soprattutto muoiono, seguendo il destino di sconfitta che ne caratterizza i protagonisti) solo nella radicale scelta di campo della verità. Detto in altre parole, per Max von der Grün scrivere significa scrivere di sé (e cioè della sola cosa che si può sperare di conoscere davvero) accettando di mostrare per intero la propria nudità. Come spiega ancora Cases citando proprio le parole dello scrittore, “Io comprendo la letteratura come mediazione di esperienze proprie, posso quindi riferire, scrivere, raccontare storie solo sua mia esperienza”. Da qui alla definizione teorica (e alla conseguente costruzione pratica) del proprio modo di fare ed essere letteratura (permettendo alla letteratura di essere voce dell’esperienza e dunque denuncia della sua irrimediabile, tragica imperfezione) il passo è breve: “Ciò che, a esser sincero, mi rende così insopportabile la letteratura proclamata di sinistra e quindi progressista, spesso anche la letteratura sul mondo del lavoro, è la totale mancanza di concretezza. Ci si accontenta di postulati, si sfornano programmi, si pubblicano istruzioni e lezioni. Poi mi si rimprovera di aver scritto un romanzo ameno ovvero poliziesco (Strada sdrucciolevole), e il rimprovero proviene da coloro che portano tutto il giorno sotto il braccio il loro bravo Brecht, dimenticando che una massima essenziale di Brecht è quella per cui chi vuole spiegare ed educare deve anche divertire. Detto in altro modo: chi non è capace di rappresentare sensibilmente il mondo del lavoro favorisce solo un dubbio dogmatismo“. Ecco dunque un romanzo che si apre letterariamente (concedendosi alle torbide atmosfere del giallo con il ritrovamento del cadavere di una bambina) per rinserrarsi subito dopo nel proprio involucro sociopolitico, sacco amniotico essenziale per la sua sopravvivenza; il respiro della voce narrante, affannoso, a tratti quasi mozzo, in tutto simile a quello di chi è sul punto di annegare, trova requie solo nelle rare parentesi in cui il romanzo esce da se stesso per farsi storia romanzesca (chi sarà l’assassino? non fa in tempo a chiedersi il lettore per poi dimenticare subito la propria domanda, del tutto superflua del resto nell’economia complessiva di quanto accade), ma questi momenti di pausa non sono altro, per l’appunto, che il necessario prendere fiato di chi sta per tuffarsi sott’acqua, dove lo attende il proprio lavoro, o se si preferisce il proprio destino. Così la scrittura di von der Grün, la sua prosa volutamente povera (e proprio per questo di straordinaria intensità) svuota l’aria accumulata nei polmoni raccontando, attraverso le esperienze dell’operaio specializzato Karl Maiwal, i meccanismi di gestione del potere all’interno di un’azienda. Un’azienda non dissimile da centinaia, migliaia di altre, che per il proprio interesse non esita ad adottare comportamenti criminali, come lo spionaggio sistematico dei propri dipendenti.
Scoperto per caso il sistema di ascolto clandestino (che prevedeva la verbalizzazione di ogni conversazione e la gelosa custodia dei fascicoli), Maiwald non esista a denunciare la cosa, trasformando la festa di Natale organizzata dalla dirigenza e dal sindacato interno prima in un incubo e poi nell’aperta rivolta dei suoi colleghi. Ma è proprio qui, dove qualsiasi finzione romanzesca collocherebbe il climax della storia, che il racconto diventa, se possibile, ancora più vero, più umano, più disperato. Maiwald infatti, perfettamente conscio della gravità di ciò che ha portato alla luce, pretende che l’azienda riconosca le proprie colpe, esige un pentimento. Le cose devono cambiare, sostiene, cambiare davvero, e perché accada è necessario che le coscienze rifiutino ogni anestesia; che si tratti del sopore indotto dal bisogno o della dolce, appagante droga del compromesso, della compravendita di se stessi, poco conta: l’impresa deve ammettere il carattere gravemente illegale del proprio agire e i lavoratori non accontentarsi di una pace frutto di mediazioni, piccoli favori, concessioni. Soltanto così giustizia potrà essere fatta. E tuttavia, qual è il prezzo da pagare per ottenerla? Un prezzo davvero troppo alto, perché comporta coraggio, nobiltà, fierezza, disponibilità al sacrificio; come tutti i suoi colleghi (alcuni dei quali sono anche amici), Maiwald ha paura; teme per il suo lavoro, per il futuro della sua famiglia, per ciò che sarà di lui, non più giovane e con seri problemi di salute con cui fare i conti, ma nonostante tutto questo egli non può rinunciare alla sua battaglia, non può tornare sui suoi passi, non può accettare che l’azienda che ha tradito in modo così feroce la sua fiducia e quella di tutti. Guardandosi attorno, però, finisce per non trovare nessuno che comprenda, e soprattutto sostenga, la sua lotta. Il tempo passa, le cose si dimenticano, sfumano, perdono consistenza, valore, e quel che resta sono le necessità quotidiane, per affrontare le quali una sola cosa è indispensabile: lavorare.
Tragica parodia di un Diogene prigioniero nella botte del suo salario mensile, Maiwald cerca l’uomo, e dell’uomo la solidarietà. Ma è una ricerca, la sua, che nasce già morta.
Eccovi l’incipit. Buona lettura.
Gli invalidi trovarono la bambina sul sentiero. Seminuda, la bambina era distesa con la faccia nel fogliame bagnato.