Recensione di “La pazienza del sasso” di Carmela Scotti
E se fossimo fatti della stessa sostanza dei sentimenti che proviamo? Se la nostra natura, la nostra essenza, quel che davvero siamo fosse una cosa sola con le emozioni da cui siamo abitati? Se non fossimo altro che ciò che riusciamo a sentire?
Se ci esaurissimo nel dolore, nella speranza, nelle rare scintille di gioia; se ci consumassimo nel rancore, vivessimo un’altra esistenza (o forse la sola esistenza possibile, l’unica davvero autentica) nell’ansia della rivalsa, nel sogno vivido della vendetta, nel male compiuto nella febbre di un desiderio folle, nella calcolata omissione di un gesto, di una parola, nella cupa complicità di un rancore incapace di requie, allora forse troveremmo un perché, una ragione, per quanto tragicamente insufficiente, alla nostra zoppicante pietà, alle lacrime piante quando ormai è troppo tardi, a quell’amore inafferrabile che senza sosta assume tutte le forme senza mai fissarsi in alcuna, e farsi realtà, verità, presenza. L’ineludibile mistero racchiuso nel respiro delle nostre anime è al centro dell’intenso, travolgente romanzo La pazienza del sasso di Carmela Scotti, dramma familiare che nel narrare il difficile rapporto tra due sorelle (allo stesso tempo legate da un affetto che non ha mai trovato il sollievo di una parola né il sostegno di un gesto così immediato e inequivocabile da non aver bisogno di spiegazione alcuna e divise da un odio tanto inspiegabile quanto dirompente) si apre a una riflessione sul significato dei legami umani, sorta di tela di ragno dalla quale è impossibile fuggire e che è illusorio credere di governare. Incisiva, potente e insieme delicata, lieve, attenta alle ferite, alle piaghe che i protagonisti della sua storia esibiscono loro malgrado (in quanto diretta conseguenza delle scelte compiute), la prosa di Carmela Scotti sceglie la metafora del viaggio – dalla Brianza alla Sicilia, in auto – per restituire al lettore i ritratti di un pugno di uomini e donne carnefici e vittime di se stessi che un disordinato scorrere d’anni ha ridotto in frantumi, in evanescenti profili d’ombra.
Il filo della memoria, disseminato di sensi di colpa e angosciosi segreti, si dipana lento, come il fato tessuto con imperturbabile pazienza dalle Parche, nella danza circospetta di dialoghi sfiorati dal sussurro di preghiera di una confessione liberatoria che sale alla gola, gonfia la lingua, batte sui denti e preme per erompere alla luce, nel gioco insinuante degli sguardi, nella dilatata, insistita distanza artificiale delle pause di silenzio, goffo contraltare alla prossimità dei corpi chiusi nel soffocante perimetro di un’autovettura in cammino lungo l’autostrada, ed è come se il momento presente, il qui e ora che i protagonisti del romanzo stanno vivendo, si componesse di quel passato tenuto celato troppo a lungo le cui catene stanno finalmente per spezzarsi: “Nicola non mi chiede come sia morte Dervia, di cui ricorda gli occhi grandi e nocciola, quel suo modo di correre con le braccia spalancate come ali; immagino che voglia saperlo, lo capisco dalle pause della conversazione, così come capisco che voglia sapere qualcosa del padre di mio figlio, ma io non sono pronta a parlare di nessuna delle due cose, almeno fino a quando non avrò trovato le parole giuste”.
E nello sfiorarsi degli opposti, in quell’eccentrico coincidere di quel che è stato con ciò che è, con le cose che sono in questo momento, al di là di tutti gli errori commessi, del male fatto, dei torti subiti, quel che resta alla fine del percorso è forse la sola cosa davvero indispensabile in un mondo derubato d’innocenza: la possibilità del perdono.
Eccovi l’incipit del romanzo. Buona lettura.
“A chi posso chiederlo se non a te?”. Ho il tono implorante delle mendicanti mentre stringo al petto la scatola di legno con un fiore stilizzato in cima. Contiene le ceneri di Dervia, un mucchietto di fosfati di calcio, zolfo e carbonio, l’unica cosa che mi rimane di mia sorella.