Recensione di “Le bostoniane” di Henry James
La fedeltà a un’idea, le battaglie sostenute per difenderla, per trasformare le sue
promesse in realtà, i sacrifici che si sopportano in suo nome. E l’amore, la sua forza misteriosa e irresistibile, la sua natura assoluta, incapace di mediazione, fatta soltanto di sfrenata libertà e inesprimibile paura. Questi gli inconciliabili opposti lungo i quali si sviluppa il travolgente dramma Le bostoniane di Henry James (in Italia edito da Feltrinelli nella traduzione di Luigi Lunari), ritratto di una società – quella statunitense di fine Ottocento – all’apparenza salda ma in realtà confusa, smarrita, lacerata dal dibattersi ostinato, insistente, di un conservatorismo i cui valori e principi continuano ad avere presa ma che pure viene sempre più percepito come qualcosa di superato, di inadatto ai tempi nuovi che si stanno approssimando all’orizzonte e che soprattutto, all’indomani della tragedia della Guerra di Secessione e delle sconvolgenti conseguenze che ha prodotto, porta in sé il vergognoso stigma dell’ingiustizia. Per rappresentare il doloroso tramonto di un’età ormai destinata a spegnersi e il contemporaneo, travagliato sorgere di un’epoca desiderata, attesa, sperata ma ancora lontana, straniera, sconosciuta e proprio per questo percepita come pericolosa, il grande narratore newyorchese mette in scena un intreccio che ha il respiro ardente di un duello, affidando l’intera costruzione del romanzo ai suoi protagonisti, le cui convinzioni, pur sincere, restano prigioniere di un furore ideologico che finisce per mutare anche la migliore delle intenzioni in un meschino calcolo d’interesse. Ed è proprio nel contrasto tra le finalità (nobilissime) in nome delle quali si agisce e ciò che effettivamente viene compiuto che James magistralmente scolpisce – soffermandosi soprattutto sul tormentato profilo psicologico di ciascuno di loro – gli eroi-antieroi della sua storia. L’agiata, combattiva Olive Chancellor innanzitutto, la cui esistenza si vota interamente alla causa dell’emancipazione femminile; di fronte a lei, nei panni dell’irriducibile avversario, il cugino Basil Ransom, gentiluomo del Sud che nelle donne (e nel ruolo che dovrebbero avere in famiglia e società) ammira soltanto ciò che per la sua parente costituisce inaccettabile offesa; e tra i due, fragilissimo ago della bilancia, la giovane Verena Tarrant, dotata di un particolarissimo talento oratorio e (agli occhi di Olive) gemma di straordinario valore per la sua lotta, ma prima di tutto questo ragazza di non comune bellezza, della quale Ransom si innamora e che a ogni costo intende sposare.
Accecati dal desiderio di trionfare l’uno sull’altra, Olive e Ransom scambiano la propria personale affermazione con gli scopi più grandi che si illudono di incarnare; così la prima vede nei successi pubblici inanellati dalla sua protetta Verena (letteralmente acquistata dai genitori, per i quali le sole cose che contano sono la rispettabilità e il denaro che è in grado di garantirla) il sicuro progredire del consesso umano e politico verso una parità di genere attesa ormai da troppo tempo e non più differibile, mentre il secondo legge nell’amore corrisposto (ma non dichiarato, anzi combattuto con tutte le forze) della ragazza per lui l’eterno ritorno di un ordine destinato a non mutare mai la propria essenza; e in questo infuriare di egoistiche passioni travestite da generose rinunce Verena si scopre irrimediabilmente orfana, strumento inerte nelle mani di tutti coloro che dicono di amarla mentendole senza neppure accorgersene: “Verena parlava con un’urgenza e un fervore ansimanti […] Olive ascoltava, gli occhi fissi; in un primo tempo sembrava capisse appena. Ma Verena fu certa che capisse a sufficienza […] ‘Che cosa vuole – che cosa è venuto a fare?’. ‘È venuto a chiedermi di essere sua moglie.'”.
Nella composta eleganza della prosa di James quel che si consuma, al di là di una quiete apparente, oltre l’ingannevole foschia di una normalità di facciata, di un diligente ossequio formale alle buone maniere, ai doveri della cortesia e dell’ospitalità, è la più cupa delle derive, il progressivo perdere d’umanità di persone che proprio in nome della promozione (o della difesa) di tutto ciò che merita di dirsi umano hanno impegnato ogni energia. E se ciò che resta, come barlume di speranza, è l’amore, e la tenerezza che porta con sé, con esso germoglia il dubbio che quel sentimento, anche nella sua più limpida purezza, sia stato mezzo e non solo fine.
Eccovi l’incipit. Buona lettura.
“Olive scenderà tra circa dieci minuti; mi ha detto di dirvelo. Circa dieci; che è esattamente come Olive”.