Recensione di “Solenoide” di Mircea Cartarescu
Il sogno infinito di Jorge Luis Borges (che altro non è se non il sogno di un sogno di un sogno) e
l’infinità a un tempo illusoria e reale della sua biblioteca di Babele; la denuncia politica e sociale che, come in Gabriel Garcia Marquez, respira sottotraccia celata dall’iperbole, dall’immaginazione sfrenata, da una fantasia che a più riprese sconfina nell’allucinazione o più semplicemente nel racconto fantastico; l’enciclopedico conoscere di Thomas Pynchon che attraversa le centinaia di pagine dei suoi capolavori negli abiti dimessi di una nota a margine, di un dettaglio di colore in un descrizione minuziosa e perfetta, di un parentesi in un discorso-fiume e che pure rivela, all’occhio attento, ciò che davvero conta in quel che si sta leggendo; la prosa d’incubo di Franz Kafka, nella quale tutto ciò che è perversione della realtà si rivela essere realtà nella sua essenza, verità laicamente rivelata, impossibile da evitare e proprio per questo intollerabile; l’ironia furiosa, travolgente ma sussurrata di Oe Kenzaburo, colta con fatica, con sforzo, con intuito, come un indizio che si rivela alla mente acuta dell’investigatore, come il suggerimento sibillino e rivelatore che guida e disorienta i partecipanti di una caccia al tesoro. Se fosse necessario addentrarsi nel monumentale (937 pagine) e labirintico Solenoide di Mircea Cartarescu (in Italia pubblicato da Il Saggiatore nella traduzione di Bruno Mazzoni) muniti di un filo d’Arianna letterario, alcuni autori imprescindibili cui fare riferimento per muoversi non del tutto alla cieca nella storia senza trama (e nonostante ciò densissima di fatti, o forse costituita da un solo, immenso accadimento svelato da stati di coscienza successivi, ognuno più lucido del precedente), sarebbero quelli citati. A ben guardare tuttavia, di nessuna bussola, letteraria o meno che sia, ha bisogno il lettore che decide di immergersi in questo romanzo che del romanzo non ha nulla, perché Solenoide e il suo protagonista – alter ego dell’autore, un infelice insegnante di romeno frustrato nelle sue ambizioni letterarie – non chiedono a chi si affacci sul suo abisso che di lasciarcisi cadere, proprio come, chiusi gli occhi la sera, ci si lascia sprofondare nel sonno. E nei sogni.
Non a caso è un’avventura onirica quella che la voce narrante del libro descrive senza sosta: la quotidianità di un’esistenza che in sé non avrebbe nulla di interessante, nulla che possa davvero considerarsi materia per un racconto, ma che a dispetto di quel che appare a prima vista pulsa di mistero, di rimandi a qualcosa di più grande, di arcaico e prossimo, che riguarda tutti, che coinvolge il genere umano, che ne segna il destino. A Bucarest, “la città più triste del mondo”, schiacciata dall’avvenire sfiorito del socialismo reale, lungo le sue strade di esibita miseria, dove lo sferragliare affaticato dei tram è il solo rumore che si ode, dove a perdita d’occhio si sussegue la mortifera architettura dei bloc proletari interrotta di tanto in tanto dalle rovine abbandonate di fabbriche divenute rifugi per animali randagi e marcescenti parchi gioco per bambini privati di tutto dalla disumana dittatura dell’uguaglianza, la sofferenza è a un tempo pane quotidiano del popolo e indispensabile linfa vitale di un sottosuolo brulicante d’esseri sconosciuti, mostruosi rigonfiamenti, escrescenze tumorali spaventose per dimensioni che replicano la vita odiosa e invincibile dei parassiti: pidocchi, acari giganteschi che al posto del sangue suggono dolore, si nutrono del male che l’uomo, per natura o se si preferisce a causa della maledizione conseguente al peccato originale, infligge al suo prossimo.
Così Cartarescu apre le porte del suo personale (ma che in realtà è di ciascuno di noi, appartiene a ogni singolo individuo) museo degli orrori insistendo su una scrittura dove a dominare sono il raccapriccio, una fisiologia dell’orrore tanto precisa quanto insopportabile, e la violenza spaventosa della vita che protegge se stessa distruggendo le altre, poco alla volta o in un colpo solo. Quel che resta alla fine di questo viaggio in un mondo che pare abitato da spettri (ancora una volta, non per caso, i dialoghi sono ridotti all’osso, a significare l’impossibilità di qualsiasi comunicazione quando a dettare legge sono le infinite radiazioni del male inflitto) è forse solo una forma d’amore, o forse la sola forma d’amore possibile, l’unica che possa provare a dare un senso a ciò che ne è del tutto privo: quella che si concretizza in una scelta, che significa sempre responsabilità. “Se dovessi scegliere”, chiede Irina, amante e collega del protagonista del romanzo al suo compagno, “tra salvare un’opera d’arte di importanza mondiale, un patrimonio di generazioni che rimarrà per sempre, e un bambino, sapendo che il bambino crescendo diventerà un mostro, un Hitler, un Pol Pot, uno Stalin, o più semplicemente un miserabile che la storia non prenderà mai in considerazione ma che saprà coprirsi soltanto di infamia, chi sceglieresti?”.
Eccovi l’incipit. Buona lettura.
Ho preso di nuovo i pidocchi, la cosa nemmeno mi sorprende più, non mi spaventa più, non mi provoca più disgusto.