Recensione di “Un matrimonio per bene” di Doris Lessing
Il “dovere sociale” del matrimonio si può considerare un atto di violenza, una sopraffazione?
L’adozione, nella propria vita, di norme condivise dal più ampio consesso nel quale si è inseriti può essere visto come un obbligo, una forzatura, in un’ultima analisi come una coercizione? E in quali circostanze? Una ragazza di soli diciannove anni – appartenente, in un Paese del Sudafrica, alla privilegiata comunità bianca che sembra non avere alcun interesse per le difficili condizioni di vita in cui versa la maggioranza indigena – che decide di sposarsi senza provare se non un tiepido affetto (e forse neppure quello) nei confronti dell’uomo che diverrà suo marito, per quale ragione sceglie di compiere un passo così importante, così potenzialmente gravido di conseguenze? Solo per cercare di sentirsi meno sola? Meno estranea a tutto quel che la circonda? Solo per avere un’identità tangibile? Un riconoscimento da parte di altri, “degli altri”, che le permetta di riconoscere se stessa? Di dirsi, “sì, io sono?”. A tutte queste domande, che non vengono mai formulate espressamente e che pure sono la sostanza dei giorni allo stesso tempo immobili e caotici di un’esistenza del tutto priva di direzione e punti di riferimento e soggetta esclusivamente al capriccio, all’arbitrio di una volontà ferma ma inconcludente, cerca di dare una qualche risposta Martha Quest, tormentata protagonista del romanzo di Doris Lessing intitolato Un matrimonio per bene (in Italia edito da Feltrinelli nella traduzione di Francesco Saba Sardi). La scrittrice britannica, premio Nobel per la Letteratura nel 2007, lascia volutamente in secondo piano, o meglio ancora fuori fuoco, questioni centrali come la brutalità del colonialismo e del razzismo e finanche l’incubo della guerra (il secondo conflitto mondiale incombe in tutta la prima parte del libro per poi esplodere nella seconda ma senza che questo evento abbia altra ripercussione se non relativamente al matrimonio, prossimo al disfacimento già all’indomani della sua celebrazione, tra Martha e il consorte Douglas) per fissare l’acuto e tagliente sguardo della sua prosa sull’universo interiore dei suoi personaggi. Il microcosmo nel quale la giovane sposa (che presto, pur non volendolo, si ritroverà incinta, dunque ancor più imprigionata nelle maglie di un ordine costituito che percepisce come inquo e soffocante ma dal quale non sa prendere le distanze, al quale non riesce a ribellarsi) si muove non procura che infelicità e malessere; tutto ciò che sembra null’altro che appropriato (le riunioni tra amiche, gli inviti alle feste, le cene) disvela a Martha l’insostenibilità e soprattutto l’intollerabile ingiustizia di una comunità che per continuare a esistere, a perpetuarsi, deve accettare, generazione dopo generazione, l’immutabilità dei ruoli, un’interpretazione che viene ripetuta all’infinito sempre allo stesso modo.
Così Martha Quest, da figlia si fa moglie e poi, con un automatismo che nega alla radice qualsiasi naturalezza e ancor più quasiasi personale determinazione, madre, come sua madre prima di lei, come tutte le donne di una certa età (che abitano in quella cittadina conficcata come una lancia nel cuore di un Sudafrica sconosciuto e violentato, saccheggiato, umiliato) prima di lei, e alcune forse prima anche di sua madre; e dopo di lei il medesimo destino toccherà a sua figlia, non importa quanti sforzi possa fare Martha per farla crescere “libera”, non condizionata, “indipendente”. E lo stesso sarà per Douglas, giovane di buona famiglia e belle speranze, funzionario governativo (come si conviene a ogni bianco in quella terra) la cui unica esaltazione, in cui solo sussulto in una vita perfettamente disegnata è rappresentato dalla possibilità di partecipare alla guerra, possibilità, naturalmente, che non potrà concretizzarsi per “motivi di salute”. E in questo modo, doloroso forse, ma si trattra di una sofferenza destinata a svanire presto, le cose tornano ad aggiustarsi, ad andare come è giusto che vadano.
Tutto, nella fredda, implacabile rappresentazione letteraria di Doris Lessing, si svolge su un palcoscenico; lì niente a un primo sguardo è fuori posto e nonostante ciò non v’è cosa o persona che non sia finzione, che non reciti un ruolo mandato a memoria, inscritto nelle carni, nei gesti, nelle parole, nei pensieri. E questa ribalta, come un perfetto meccanismo di tortura o peggio una ghigliottina, assolve in modo perfetto al proprio compito: l’amputazione di qualsiasi cosa venga vista come una minaccia, un pericolo, un ostacolo.
Eccovi l’incipit. Buona lettura.
Erano le quattro e mezza del pomeriggio. Due giovani donne camminavano pigramente sul marciapiede, all’ombra delle tende che riparavano le vetrine dei negozi.