Recensione di “Gilead” di Marilynne Robinson
Affinché il racconto di una vita (della propria vita) ormai prossima alla fine, offerto
come dono, testimonianza, confessione a un figlio ancora bambino – la cui esistenza sarà quando quella del proprio genitore avrà da tempo cessato di essere – possa avere un senso, un significato, possa in una parola essere qualcosa di diverso, d’altro e d’ulteriore (dunque di più grande) di una semplice storia, o di un insieme di storie, di quando in quando buffe, di quando in quando tragiche, il più delle volte incolori, nude come lo sono i giorni che scorrono senza quasi che nessuno se ne accorga, è necessario che ciò che si narra esca in qualche modo da se stesso, trascenda la sua essenza per diventare un futuro visibile, un domani possibile, una traccia, un’impronta, qualcosa insomma che faccia dire, di fronte a un qualsiasi accadimento, a colui, a coloro che sono rimasti, mio padre, la persona che se ne è andata avrebbe agito in questo modo, detto queste parole, scelto in silenzio, regalato un abbraccio, il conforto di una preghiera. Per il reverendo John Ames, giunto quasi al termine del suo cammino terreno compiuto dal principio alla fine al servizio di Dio, figlio e nipote di predicatori cristiani, sorpreso ormai in tarda età da un amore assoluto e travolgente nella sua fragile mortalità, nella sua inevitabile finitudine, per una donna arrivata chissà come nella sua chiesa una domenica in apparenza uguale a centinaia d’altre e benedetto (in modo forse ancora più stupefacente) dalla nascita di un bambino, trovare il modo di essere per il proprio figlio, o meglio di esserci, qui, nel momento presente che sta irrimediabilmente sfumando e che potrebbe spegnersi all’improvviso una volta per tutte, e soprattutto negli anni che non potrà vedere, cui non gli sarà concesso di assistere, è più di un bisogno, più di un’urgenza, più di un desiderio; è uno scopo irrinunciabile. Gilead, l’intensissimo romanzo di Marilynne Robinson (Einaudi, traduzione di Eva Kampmann), esplora in forma di lettera scritta da un anziano padre al proprio figlio di soli sette anni, dapprima la natura di questo scopo, che sembra racchiudere in sé il mistero unico e universale dell’essere vivi, di questo cammino capitato in sorte a ciascuno di noi (perché quanto conta davvero, la volontà di chi ci mette a mondo a fronte del fatto che l’atto umano della creazione non ha nessun legame reale, nel senso che a questo termine offre l’esperienza di tutti i giorni, la sola forma di conoscenza cui possiamo attingere, con la creatura che ne è il frutto?) che affratella l’umanità nello stesso istante in cui la rende mortale nemica di se stessa, poi il proprio fine, che vorrebbe configurarsi come un atto di generosità talmente puro da oltrepassare i limiti umani (questo sono io e sono qui, con te e dentro di te e accanto a te, sempre, come il corpo di Cristo che diviene parte del nostro corpo nel mistero dell’Eucaristia) ma che necessariamente deve arrestarsi a quel che l’uomo può, e ancor più non può, fare.
Così, dopo aver preso per mano il proprio figlio per condurlo a visitare il difficile passato di bambino di suo padre, dopo avergli parlato di suo padre e di sua madre e più ancora del nonno, il padre del padre, figura quasi mitica di predicatore che in più di un’occasione, almeno così sosteneva lui, aveva ricevuto la visita del Signore, ecco che quest’uomo, accorgendosi di non poter procedere oltre lungo questa strada, sceglie di porgere quel che può di se stesso alla persona che più ama al mondo attraverso la vita imperfetta, peccaminosa, brutale, commovente e umanissima di un altro uomo, il figlio di un altro predicatore suo amico d’infanzia, spina nel fianco tanto del padre biologico quanto sua, del reverendo che lo ha battezzato e che, almeno nelle intenzioni del suo fraterno amico, è stato per lui un altro padre, forse addirittura il vero, unico padre. Attraverso questa persona, attraverso la sua vita scellerata o forse semplicemente vissuta, vissuta nel solo modo a lui possibile, alla ricerca di un amore cui non poteva in alcun modo rinunciare ma del quale oscuramente non si sentiva degno, egli giunge quasi all’indicibile, un indicibile che solo può essere accostato parlando di ciò di cui nulla si può dire davvero e che pure non è possibile tacere: Dio. “Volevo dire che puoi affermare l’esistenza di qualcosa – l’Essere – senza avere la più pallida idea di cosa sia. Ma Dio corrisponde a un livello decisamente anteriore; se Dio è l’Artefice dell’Esistenza, cosa può significare che Dio esiste? […]. Avrebbe dovuto appartenere a una condizione precedente all’esistenza che la scarsità della nostra comprensione può soltanto chiamare esistenza. Questo chiaramente genera confusione. Ci sarebbe bisogno di un altro termine per definire uno stato o un attributo di cui non abbiamo alcuna esperienza, con cui l’esistenza così come la conosciamo può avere soltanto una lontanissima somiglianza o affinità. Perciò, creare prove in base a qualsiasi genere di esperienza è come costruire una scala che arrivi alla luna. Sembra possibile, fino a quando non ti fermi a considerare la natura del problema. Quindi, il mio consiglio è: non cercare prove. Non sono mai all’altezza della questione e sono un po’ impertinenti, secondo me, perché pretendono per Dio un posto entro la nostra portata concettuale. E, probabilmente, ti sembreranno sbagliate anche se potranno servirti a convincere qualcun altro”.
Molto più di un romanzo, Gilead accompagna il lettore fin nel cuore della vita che, per ciascuno di noi, è l’esperienza che raccoglie tutte le altre esperienze possibili. Qualcosa che non conosciamo, che non possiamo conoscere, che non ci è dato conoscere ma solo provare ad avvicinare; una messa alla prova, un prezzo da pagare, un abisso probabilmente, per guardare il quale servono occhi colmi di misericordia.
Eccovi l’incipit, buona lettura.
Ieri sera ti ho detto che forse un giorno me ne andrò, e tu mi hai detto: – Dove? – E io: – A stare con il Buon Dio -. E tu: – Perché? – E io: – Perché sono vecchio -. E tu mi hai detto: – Secondo me non sei vecchio -.