Recensione di “Questo bacio vada al mondo intero” di Colum McCann
Agosto 1974, New York, World Trade Center. Un cavo teso tra le due torri a centodieci piani di
altezza. E sul cavo un uomo, un funambolo autodidatta. Un francese. Il suo nome? Philippe Petit. Per molti un’illusione ottica, per altri uno scherzo molto ben congegnato, per altri ancora un suicida, questione di qualche secondo e di lui non sarebbe rimasto più nulla, o quasi. “Alcuni in un primo momento pensarono a un’illusione ottica, a un effetto atmosferico o a un calare dell’ombra. Altri lo presero per il classico scherzo metropolitano: si sta lì impalati con il naso per aria finché non si raduna un gruppetto di curiosi che sollevano la testa a loro volta, annuiscono, confermano, e alla fine si trovano a osservare il nulla assoluto, come in attesa della fine di una gag di Lenny Bruce. Ma più guardavano, più ne erano certi. Qualcuno stava in piedi lassù sul margine del palazzo, un’ombra scura contro il grigio del mattino. Forse un lavavetri. O un operaio edile. O qualcuno che voleva lanciarsi nel vuoto. Lassù, a centodieci piani di altezza, assolutamente immobile, un’inezia scura si stagliava contro il cielo nuvoloso. La si poteva vedere solo da certe prospettive, perciò qualcuno dovette fermarsi agli angoli delle strade, scovare un’apertura tra i palazzi, o sgusciare fuori dalle ombre per liberarsi di cornicioni, doccioni, parapetti, tettoie. Nessuno di loro aveva ancora notato la fune tesa ai suoi piedi, tra una torre e l’altra. Era la sagoma umana a tenerli lì con il collo teso, sospesi tra la promessa di una tragedia e la delusione dell’ordinario. Il dilemma dello spettatore: non volevano starsene lì a perdere tempo per niente, a guardare un cretino sull’orlo del precipizio fra le torri, ma non volevano neppure perdersi l’attimo in cui sarebbe scivolato, o lo avrebbero arrestato, o si sarebbe tuffato a braccia spiegate“. A un tempo pretesto e fulcro narrativo dell’intenso e travolgente romanzo corale Questo bacio vada al mondo intero di Colum McCann (Rizzoli, traduzione di Marinella Macrì, meritatamente premiato con il National Book Award), la meravigliosa follia di Petit è la calamita che attrae sguardi e pensieri di un eterogeneo gruppo di persone, le cui esistenze l’autore racconta con accenti di commossa partecipazione. La passeggiata nel vuoto, tra quelle Torri che vivranno per sempre proprio perché abbattute nel modo più tragico e vile, svela in apertura di libro l’ambientazione delle storie che si susseguiranno, diversa una dall’altra eppure in qualche misura legate tra loro dai sentimenti e dalle emozioni che muovono, per poi farsi testimone muto di quel che accade e lasciare che siano gli uomini e le donne, i vivi e i morti, i ricordi e i desideri a colmare un tempo macilento, zoppicante, colmo di ingiustizie, rabbia e rimpianti ma mai, mai del tutto perduto.
McCann racconta ogni cosa con linguaggio vivo e potente, cercando, come Diogene l’uomo, la verità nel cuore delle cose e delle persone; nel naufragio senza speranza delle prostitute di strada illuminato dalla carità pura di un giovane prete di strada per il quale se Dio non è dove la gente manca di ogni cosa allora non è possibile pensarlo esistente; nel dolore incancellabile di madri che hanno perso i loro figli nell’incubo della sporca guerra vietnamita e non riescono in alcun modo a darsi pace; nel vacillare improvviso di un giudice, i cui appigli forniti dal dettato delle leggi sembrano non offrire più alcuna sicurezza quando si tratta di inquadrare l’azione compiuta dal funambolo scegliendo di sanzionarla (su che basi?) o di non farlo (aprendo forse la porta a chissà quali conseguenze), lo scrittore irlandese naturalizzato statunitense racconta di sofferenze, speranze, illusioni, peccati e redenzioni, illuminando, grazie al respiro di una prosa che in più di un’occasione sfiora la perfezione, le possibili, miracolose grandezze che germogliano nelle umane fragilità che sono la nostra unica, possibile fratellanza.
Eccovi l’incipit, buona lettura.
Quelli che lo videro ammutolirono.