Recensione di “Anatomia di una voce” di Alessandro Bonan
Carlo Maria Ortani è uno scrittore, o meglio lo è stato, perché ormai da qualche tempo
non riesce più a fare il suo lavoro. Attorno a sé non trova storie che lo appassionino e la creatività per inventarne qualcuna senza che la realtà dei fatti (dall’evento più eclatante e straordinario, quello che immediatamente si conquista le prime pagine dei giornali e il sensazionalismo costruito ad arte dei servizi televisivi, fino alle più prosaiche e meschine vicende quotidiane) debba esserne ingrediente essenziale pare averlo abbandonato. Così quest’uomo, che non ha nessuna intenzione di smettere di essere ciò che è sempre stato, decide di lasciare la campagna e i suoi silenzi, che fino a quel momento ne avevano cullato e forse anche nutrito il lavoro, per Milano, nella speranza che la città riesca a scuoterlo dal pesante torpore professionale (e forse anche esistenziale) in cui è precipitato. Ed è proprio Milano, la Milano ricca e immorale della buona, buonissima borghesia imprenditoriale, delle feste esclusive, dell’eleganza esibita, sfacciata, allo stesso tempo carnefice e vittima del proprio fascino esasperato, spinto all’estremo, e in parallelo un’altra Milano, quella delle disperate solitudini di chi è stato travolto da un dolore che non dà requie, dello sgomento di cui si finisce preda nel momento, sempre inaspettato, in cui a travolgerci è l’amore, un amore assoluto, completo, perfetto, qualcosa che non avremmo mai neppure osato immaginare, figuriamoci vivere, e che ci prende alle spalle come una folata di vento, e compromette il nostro equilibrio di uomini, donne, madri, padri rendendo incerti i nostri passi, mutando in dubbio ogni determinazione, rinnovando e moltiplicando senza sosta l’intensità di un desiderio la cui feroce, perversa natura sembra essere quella di restare irraggiungibile, dunque inappagato, ad accogliere (o forse a imprigionare) in un labirintico inseguirsi di vicende misteriosamente legate le une alle altre (ma è davvero così?) un Ortani tanto straniero al luogo in cui ha scelto di vivere quanto a se stesso. Questa la cornice, lo sfondo nel quale Alessandro Bonan ambienta il suo esordio letterario, Anatomia di una voce (Cairo Editore), romanzo che scivola agile lungo una molteplicità di generi.
Dal giallo al dramma, dal racconto amoroso a un’autobiografia scissa in frammenti di specchio, dove è impossibile distinguere la verità dalla menzogna, la lucidità dal delirio, l’onnipotenza del sogno dalla tragica fragilità della veglia, Bonan sceglie il filtro partigiano della narrazione in prima persona e il respiro corto, studiatamente affannato di capitoli brevi, a volte brevissimi per dare vita a un intreccio dove a dominare è una sorta di febbre, un’alterazione dei sensi che impedisce una sicura messa a fuoco dello sguardo. Eppure è proprio dove ogni cosa sembra risolversi in un susseguirsi di false piste e vicoli ciechi che è possibile trovare la via d’uscita. A patto di essere disposti a pagarne il prezzo, qualsiasi sia.
Beffardo gioco di prestigio nel quale principio e fine paiono fondersi l’uno nell’altra, essere, l’uno per l’altra, condizione necessaria e sufficiente d’esistenza letteraria, Anatomia di una voce colpisce il lettore nello stesso modo in cui un’acrobazia, un salto mortale eccitano i sensi e l’emozione degli spettatori. Non v’è tra di essi chi non sappia (o meglio creda, sia convinto di sapere) come si concluderà l’esibizione che sta per avere inizio; pure non è possibile, né mai lo sarà, trovare qualcuno che possa dire con assoluta certezza cosa accadrà davvero, come si concluderà lo spettacolo, se con un applauso liberatorio o con grida di sconcerto e orrore.
Eccovi l’incipit, buona lettura.
La forza con la quale la spinsi contro il muto non so da dove mi fosse arrivata.