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Guardare alla scrittura


Recensione di “Il mare non bagna Napoli” di Anna Maria Ortese

recensione - il mare non bagna napoli - anna maria ortese
Anna Maria Ortese, Il mare non bagna Napoli, Adelphi

“Il mare non bagna Napoli apparve la prima volta nei Gettoni della Einaudi, con una

presentazione di Elio Vittorini. Era il ’53. L’Italia usciva piena di speranze dalla guerra, e discuteva su tutto. A causa dell’argomento, anche il mio libro si prestava alle discussioni: fu giudicato, purtroppo, un libro “contro Napoli”. Questa “condanna” mi costò un addio, che si fece del tutto definitivo, negli anni che seguirono, alla mia città. E in circa quarant’anni – tanti ne sono passati da allora – io non tornai più, se non una volta, per qualche ora, e fuggevolmente, a Napoli. A distanza, appunto, di quattro decenni, e in occasione di una sua nuova edizione, mi domando se il Mare è stato davvero un libro “contro” Napoli, e dove ho sbagiato, se ho sbagliato, nello scriverlo e in che modo, oggi, andrebbe letto. La prima considerazione che mi si presenta è sulla scrittura del libro. Pochi riescono a comprendere come nella scrittura si trovi la sola chiave di lettura di un testo, e la traccia di una sua eventuale verità. Ebbene, la scrittura del Mare ha un che di esaltato, di febbrile, tende ai toni alti, dà nell’allucinato“. Così, nella prefazione alla nuova pubblicazione del suo libro forse più noto, Il mare non bagna Napoli (Adelphi), Anna Maria Ortese affronta l’amara eredità che questo lavoro le ha lasciato, e lo fa prendendo le mosse da ciò che un libro, qualsiasi libro, è nella sua essenza, e cioè la prosa, il respiro di quel che viene narrato e la profondità cui le parole riescono a giungere nel loro cammino verso il vero, l’autentico, in qualche modo verso l’indicibile. Perché se è vero, e chi scrive crede sia assolutamente vero, che l’esercizio dello scrivere sia null’altro che una tensione continua e sempre inappagata verso una realtà che per propria natura (una natura mostruosa, una natura che non è esagerato definire contronatura) si ribella alla possibilità di essere espressa in modo compiuto dalle parole, disegnata dal principio alla fine dalle possibilità del linguaggio, allora i racconti contenuti nello straziante, nevrotico (l’aggettivo è della stessa Ortese), esaltato Mare sono misura, se non unica, di certo una tra le possibili, dello scarto esistente tra quel che può essere detto e quel che esiste un passo più in là. Non v’è dubbio che la Napoli che l’autrice mette in pagina, e per Napoli qui è da intendersi, ben oltre la città, la schiera di dannati che la abitano, così corrotta da miseria a mancanza di speranza da essere non solo rappresentazione ma realizzazione concreta della città dolente di Dante, nella quale si entra per non uscirne mai più, somigli ai deliri e ai sogni di un pazzo, ma qui la lente deformante della scrittura di Anna Maria Ortese, gravida di aggettivi ognuno più incisivo e terribile dell’altro, satura di un odore di morte e putrefazione che non risparmia alcuno, lungi dallo snaturare i contorni dei luoghi e della perduta gente su cui si posa, restituisce al lettore esattamente quel che l’occhio nudo vedrebbe da sé: una teoria di rovine umane e materiale così assoluta da lasciare, letteralmente, senza fiato.

Il mare non bagna Napoli dunque, non solo non è un libro contro la città partenopea, ma si può considerare alla stregua di un disperato (e purtroppo sterile) atto d’amore verso di essa: allo stesso modo in cui un superficiale esame dei capolavori di Louis-Ferdinand Céline porta a scambiare per odio verso tutto e tutti quello che in realtà è una presa di coscienza cui il grande scrittore francese non avrebbe mai voluto arrendersi (“impossibile amare gli uomini, mentono troppo”), l’atto d’accusa contro Napoli che è stato per così tanto tempo (e tanto ingiustamente) rimproverato ad Anna Maria Ortese si rivela essere un grido di ribellione, un atto di rivolta, un “no!” urlato a un destino che è ineluttabile solo se gli si permette, proprio come farebbe un veleno, di mischiarsi al sangue dei napoletani (e delle persone tutte), divorandoli così dall’interno, lentamente, un giorno dopo l’altro, un anno dopo l’altro.

Dal delicato e tragico Un paio d’occhiali al terrificante, insopportabile La città involontaria, passando per la spietata testimonianza di Oro a Forcella e per i quadri decadenti, oscuri, meschini di una Napoli letteraria allo stesso tempo immaginata e temuta, evocata e respinta, nei racconti de Il mare non bagna Napoli a dominare incontrastata è l’ombra del dolore e della sconfitta. Pure, della notte eterna e invincibile non ci si potrebbe accorgere se da qualche parte, non importa quanto fioco, non brillasse un qualche lume.

Buona lettura. Questa volta non scriverò nessun incipit perché quelli di ogni racconto meriterebbero di comparire.

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