Recensione di “La curée” di Emile Zola
“Sarebbe difficile opporre alla regola metafisica che sembra guidare l’opera
dei grandi maestri, ‘ogni cosa è suscettibile d’espressione’, una regola più concreta, visiva e addirittura plastica come quella che guida l’opera di Emile Zola: ‘tutto ciò che è reale può essere detto’. Parole come queste egli scrisse più volte e sempre con una affermatività convinta; polemica alle sue volte; spesso, polemicissima. La realtà, nelle sue immagini e nei suoi sconvolgimenti oggettivi, era per Zola una verità, anzi la sola verità degna di fede; e la fede, sempre giustificata negli inventori di un genere, a lui, capo della scuola naturalista, sta benissimo. Dicono che la sua vista fu limitata, e in un certo senso è vero; ma in quei limiti egli si muove con un’energia, una ricchezza, una probità di osservazione e documentazione, una capacità di assimilazione della vita quasi imparagonabili. Zola fu accusato di tutto: di calunniare il popolo, di offendere la moralità, la decenza e il buon gusto, di essere diseducativo e pessimista e persino di discendere da un padre italiano […]. Ma Zola era di quegli uomini di penna e di cuore che non hanno paura né di critiche né di nemici, né di attacchi per quanto arrovellati. Tutto dato al lavoro, la sua sincerità e la sua onestà lo rendono battagliero”. Nella prefazione all’edizione italiana di La curée (Club degli Editori), di cui è anche traduttrice, Maria Bellonci insiste sull’onestà di Emile Zola, sulla sua sincerità d’autore che è, prima di ogni altra cosa, prima di qualsivoglia scelta stilistica, prima della costruzione dei personaggi, prima della scelta dell’ambientazione, da intendersi come testimonianza, e dunque cronaca di dati di fatto. Romanzo appartenente alla saga dei Rougon Maquart (della quale qui potete trovare, se vi interessa, le recensioni di Germinale e de L’assomoir), La curée potrebbe quasi essere letto come un’inchiesta giornalistica, o come il diario privato di qualcuno che, per conoscenze, amicizie o per un particolare fiuto, era a parte della ramificata rete di corruzione (e del conseguente enorme spreco di denaro pubblico) imperante, nella città di Parigi, in tutti gli apparati politico-amministrativi, e votata al totale sfruttamento della “rivoluzione” edilizia voluta dal Secondo Impero. Scrive ancora a questo proposito Bellonci (prendendo le mosse dalla scelta di non tradurre il titolo di questo lavoro), “La parola curée non ha la sua equivalente italiana ed è parola fortemente icastica che per il suo suono tronco dopo l’u stretto e l’erre suggerisce il senso dell’azzannare. Zola aveva ragione di tenere a questo titolo che aveva derivato da un lavoro teatrale in versi di Auguste Barbier. L’immagine dei visceri sanguinosi della preda di caccia, dati alle mute latranti di cani, è l’immagine di una Parigi sventrata e lacerata sulla quale gli speculatori si gettano con avidità feroce in una società corrotta e viziosa divisa in predati e predatori. La fredda mania di grandezza dell’imperatore, l’ambizione scaltra e greve di Haussman, la complicità torbida dei ministri avevano ridotto Parigi un’immensa rovina e strappato alla città la grazia e il decoro dei palazzi antichi, dei padiglioni leggiadri, delle chiare dimore circondate da giardini che avevano reso incantevole l’eredità urbanistica del Sei e del Settecento non guastata dal primo Napoleone. Lo scempio avvenne fra un turbinio di milioni quale non s’era mai visto e che abbagliava le fantasie, corrompendole“.
Romanzo più che mai d’ambiente, romanzo di moventi oscuri, di appetiti insaziati e insaziabili, romanzo, si può addirittura giungere ad affermare, di chiara impronta psicopatologica (Parigi è malata perché lo sono coloro che la abitano; sono i suoi cittadini a inocularle il virus che la distrugge, che ne fa, prima ancora che un insieme di macerie, un nudo, inerte bottino da saccheggiare, un corpo indifeso sul quale accanirsi), La curée impressiona per ciò che da questo lavoro sembra nascere spontaneamente; è come se Zola non avesse dovuto impegnarsi nel delineare i suoi protagonisti, tutti senza eccezione disgustosi fin quasi (e in diversi momenti ben oltre) la tollerabilità. Non infatti essi vengono sistemati sulla scena dallo scrittore al modo in cui un giocatore di scacchi posizione i pezzi sul campo di battaglia, bensì egli (Zola) è come se li trovasse già pronti, in azione o prossimi a partire, evocati, come da un malvagio incantesimo, da un tempo ormai quasi del tutto privo di speranze, dove è possibile esistere, o per dir meglio prosperare, ottenere successo, solo congiurando, compromettendosi, schierandosi senza riserve dalla parte del vizio, della colpa, espellendo da sé anche solo l’ombra di uno scrupolo, di un rimorso. In questo quadro non sorprende che colei che la morale del tempo ha con fin troppa facilità additato come la più infame nella zoliana galleria di umanità alla deriva sia in realtà la più innocente, o se si vuole la più sincera: nella passione che Renata concepisce e soddisfa per il figliastro Massimo c’è senza dubbio debolezza e abiezione, ma tanto l’una quanto l’altra sono cadute squisitamente umane, laddove tutti coloro che circondano questa donna fragile e irrisolta, a partire dal marito Aristide, non sono che incarnata disumanità.
Eccovi l’incipit. Buona lettura.
Di ritorno, tra la folla delle vetture che venivano via costeggiando il lago, il calesse dovette andare al passo.