Recensione di “La nave morta” di B. Traven
Se qualcuno, uno sconosciuto, vi chiedesse come vi chiamate, cosa fareste? Immagino che
la risposta più ovvia sia che glielo direste. Immagino sia così perché è quello che farei io. E se questo sconosciuto insistesse nella sua indagine e vi domandasse, oltre al nome, la nazionalità? Anche in questo caso, per quanto un po’ più malvolentieri, scommetto che rispondereste. E io farei lo stesso. Se ora questo importuno signore vi chiedesse di dimostrare, di provare che siete davvero chi avete sostenuto di essere, cioè che il vostro nome e il vostro Paese d’origine (che con ogni probabilità è lo stesso in cui vi trovate mentre sta succedendo tutto questo) sono proprio quelli che avete dichiarato, quelli e non altri, come replichereste? Voltandogli le spalle, naturalmente, e non prima di avegli detto a brutto muso di farsi gli affari suoi. Certo, senz’altro, ma solo se lo sconosciuto in questione fosse una persona come voi, e cioè qualcuno che non ha alcun diritto di avere certe informazioni, di ficcare il naso, non importa quanto superficialmente, nelle vite altrui; perché se invece il nostro sconosciuto, lungi dall’essere un cittadino tra gli altri, fosse un poliziotto, dunque una persona che non solo ha l’autorità di fare certe domande ma alla quale una risposta bisogna pur dare, andarsene per la propria strada come se nulla fosse accaduto non sarebbe possibile. Che fare dunque in quel caso? Semplice, presumo, direte voi, mostrare un documento. E lo presumo perché questa è la riposta che darei io. E se non aveste documenti da esibire? Di più, se mancaste di documenti di sorta e non ci fosse alcun modo di risalire alla vostra identità, di recuperare il vostro nome e il vostro cognome, se la vostra nazionalità restasse un mistero, chiusa in chissà quale incartamento sistemato in chissà quale scaffale, nello scantiunato di chissà quale ufficio anagrafe di chissà quale città o paese del mondo, chi potrebbe sostenere che voi siete chi pretendete di essere? E in modo ancor più radicale, chi potrebbe affermare, al di là dell’evidenza fornita dai sensi, cui peraltro la più elementare delle filosofie ci ha insegnato a dubitare, che esistiate veramente? Questa domanda, provocatoria e grottesca solo in apparenza, è il centro di gravita del romanzo di B. Traven La nave morta (in Italia pubblicato da WoM Edizioni nella traduzione di Matteo Pinna), il cui protagonista, un marinaio americano con tanto di nome e cognome e, come avete potuto leggere un istante fa, nazionalità, perduta in Olanda la nave sulla quale prestava servizio, si ritrova senza documenti (e senza soldi, ma quest’ultimo, a differenza di quel che che viene naturale credere, si rivelerà trascurabile dettaglio) in un mondo, il nostro mondo, quello nel quale viviamo anche noi senza renderci conto di quale abisso di disumanità sia in realtà, che non è disposto ad accettare, come prova della sua esistenza in vita, l’onestà della sua parola di uomo, quel ti do la mia parola sulla cui forza un tempo si facevano, e mantenevano, giuramenti e promesse.
La sconfinata distopia di B. Traven (che sceglie come palcoscenico per la sua storia il mondo intero, toccato grazie ai viaggi per mare di una nave “morta”, cioè una nave a tutti gli effetti clandestina, il cui destino è affondare affinché gli armatori intaschino il denaro dell’assicurazione e il cui equipaggio è formato da uomini “inesistenti”, invisibili, persone prive di documenti che non hanno modo di dimostrare chi siano e per i quali non può esistere altra terra, altra patria che una zattera d’acciaio in balia delle onde destinata a non trovare mai un approdo definitivo) si muove su un doppio registro narrativo: nella prima parte, che si svolge in un’Eropa dai confini allo stesso tempo incerti e sorvegliatissimi (ma che proprio poliziotti, guardie di confine e doganieri, cioè coloro che dovrebbero controllarli, insegnano come superare) impegnata a espellere da ogni territorio il povero marinaio che non può nemmeno dimostrare di esistere (non seguendo le rigide regole delle burocrazie statali, almeno) a prevalere è un tono comico, scanzonato, derisorio, che tuttavia non maschera ma al contrario sottolinea gravità e drammaticità della situazione che descrive, mentre nella seconda, dove a dominare è il mare (e la nave fantasma che a fatica lo attraversa), l’accento si fa più cupo e il tema del bieco sfruttamento dell’uomo sull’uomo, dell’ingiustizia del sistema capitalistico (di cui la gerarchia di comando a bordo è metafora fin troppo trasparente), cui fa da contraltare naturale solidarietà tra ultimi, tra offesi e umiliati, prende il sopravvento. Fino al tragico finale, atteso ma non per questo meno coinvolgente.
Duro atto d’accusa ma anche fiera rivendicazione di libertà e dignità, La nave morta è un romanzo di grande originalità che unisce la trascinante (e fors’anche ingenua, ma che importa?) tensione etica del pamphlet alla gioia sincera di un narrare che incarni al meglio delle sua possibilità quella che è la natura della letteratura tutta: farsi patrimonio dell’umanità, leva del pensiero.