Recensione di “Il castello degli scrittori” di Uwe Neumahr
Rebecca West, John Dos Passos, Alfred Döblin, Erika e Golo Mann, Willy Brandt, Martha
Gellhorn ed Ernest Hemingway, Elsa Triolet, Gregor von Rezzori. E il castello confiscato alla famiglia Faber-Castell. E poco distante da lì, nella città di Norimberga, l’aula in cui sarebbe tenuto il più importante processo della storia, quello ad alcuni degli uomini più in vista del regime hitleriano collassato soltanto pochi mesi prima. Tra loro Rudolf Hess, Joachim von Ribbentrop e il maresciallo del Reich Hermann Göring, con ogni probabilità la figura più demoniaca, inquietante, affascinante ed enigmatica tra quelle alla sbarra. Questo lo scenario narrato da Uwe Neumahr nella sua particolareggiata cronaca intitolata Il castello degli scrittori (Marsilio, traduzione di Silvia Savojni e Giovanna Targia). Un lavoro letterario di gran pregio, a metà tra ricostruzione, cronaca e saggio, sorretto da una prosa elegante, precisa, potente, che non si limita a restituire, intatto, un momento per molti aspetti unico della storia, ma ne analizza in profondità il significato che doveva avere per le persone coinvolte. I crimini che sarebbero stati discussi (e soprattutto svelati in tutta la loro abissale ferocia), resi di pubblico dominio, trasferiti dalla dimensione quasi incredibile dell’accadimento, del fatto compiuto, a quella ancora più inimmaginabile della loro descrizione, della loro traduzione in parole, il che voleva dire, da una parte, del loro particolareggiato disegno – come veniva dispensata la morte, del singolo e della comunità, come era stato dapprima pianificato e poi attuato, con una grado di efficienza sempre maggiore, l’annientamento di un intero popolo – e dall’altra di una loro giustificazione, che poteva trascorrere tra gli estremi, assurdi in pari tempo, di una rivendicata innocenza e di una passiva obbedienza alle regole della gerarchia militare – non si fa se non ciò che viene ordinato, e quel che viene ordinato non si può non fare – infatti sembravano sfidare la ragione umana, la possibilità stessa che il pensiero potesse concepirli e dunque, in ultimo, la loro esprimibilità. Poteva esistere una voce che non tremasse di fronte a quel che era successo? Potevano esistere parole in grado di dire, e di farlo con il grado di approssimazione al vero che un processo esigeva affinché l’impianto stesso messo in piedi dalle potenze vincitrici restasse, come era nelle intenzioni, un atto di giustizia e non si tramutasse, come era stato per Versailles solo pochi decenni prima, la gratuita umiliazione dello sconfitto, cosa avevano fatto i nazisti, quali erano le colpe del Terzo Reich?
Nella ricerca di queste parole, di questa voce, riposa il senso dell’opera di Neumahr, i cui capitoli, ciascuno dedicato ai diversi celebri personaggi che assistettero al processo e lo descrissero per i lettori di tutto il mondo, non fanno che interrogarsi su come dire la verità, una verità naturalmente che resta qualcosa di inafferrabile, la cui compiutezza non fa che sfuggire, e non solo per la gravità dei crimini perpetrati dai nazionalsocialisti ma anche per la parzialità (inevitabile, ineliminabile) di tutti i cronisti. A mancare all’uomo, agli uomini, all’essere umano, è la categoria dell’universale, la sola necessaria per pesare torti e ragioni considerati nella loro essenza, nella loro pura, disincarnata realtà di fatti, cose, azioni; non può sorprendere dunque che alla fine di tutto quel che resta, quel che resta davvero del più importante processo della storia si riduce a una partita a scacchi – o se si preferisce a una guerra simulata, quasi non bastasse quella appena conclusa – di interpretazioni (a volte sincere, a volte smaccatamente menzognere), giudizi, prese di posizione, artifici retorici la cui stella polare si rivela immancabilmente essere l’interesse di parte. Ma nonostante ciò, nonostante tutto, Norimberga e il suo processo restano e resteranno pietre miliari, storia, passato comune, che ognuno di noi è chiamato a portare con sé come memoria e responsabilità. Così scrive l’autore nella prefazione al suo scritto: “Xiao Qian era attonito. Quando nell’ottobre del 1945 attraversò per la prima volta le strade di Norimberga in macerie, quella fu l’unica tra tutte le città europee a ricordargli Pechino […]. Come corrispondente di guerra cinese durante il secondo conflitto mondiale, Xiao Qian aveva passato il Reno con l’esercito britannico nel 1945 […]. Conosceva l’importanza turistica di quella che era stata un tempo una città dell’impero, ma ‘al giorno d’oggi’, così scrisse nel suo reportage del 9 ottobre 1945, i turisti non vengono a Norimberga attirati dai luoghi di interesse culturale e storico (che ora si trovano sotto la cenere), e neppure per via dei suoi famosi Lebkuchen, i biscotti di pan di zenzero. Oggi Norimberga è al centro dell’attenzione mondiale perché qui vengono processati ventitré grandi criminali del regime nazista“.
L’attenzione mondiale. All’indomani della capitolazione tedesca ci fu e rese possibile Norimberga. Questo libro, che vorrei suggerire a tutti di leggere e meditare, ha il merito di ricordarcelo, un merito che oggi ha particolare valore.
Eccovi l’incipit. Buona lettura.
Nel novembre del 1945 gli occhi del mondo erano puntati su Norimberga. Per la prima volta nella storia dell’umanità, i responsabili politici e militari di un regime criminale erano chiamati in giudizio.