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Gli anni squallidi della Russia


Recensione di “Il rumore del tempo – Feodosia – Il francobollo egiziano” di Osip Mandel’stam

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Osip Mandel’stam, Il rumore del tempo, Feodosia, Il francobollo egiziano, Einaudi

Gli ultimi anni al cadere del XIX secolo e un Paese intero che si raccoglie nelle memorie di un

poeta, il cui lirismo si nasconde nell’ombra per lasciare spazio a una prosa che si assume la responsabilità di una narrazione attraversata, se non da palese infelicità, da una sorta di costante amarezza, trafitta dalla punta di lancia della delusione, dallo stiletto di un pensiero che non può rifiutarsi di vedere ciò che vede. “Il famoso ufficio di collocamento delle cuoche, bambinaie e governanti, in via Vladimirskaja, dove capitavo abbastanza spesso, assomigliava a un vero mercato di schiave. Quelle che aspiravano a ottenere un posto, venivano esibite una per una. Le signore le annusavano ed esigevano i benserviti. Il benservito di una signora del tutto sconosciuta, e in particolare di una generalessa, era ritenuto abbastanza valido; ma accadeva talvolta che una creatura messa in vendita, dopo aver squadrato la compratrice, le scoppiasse a ridere in faccia e le voltasse le spalle. Allora accorreva la mediatrice di questo traffico di schiave, si scusava, e parlava di decadenza dei costumi“. La prosa si fa immagine in bianco e nero nei brevissimi racconti che compongono la raccolta Il rumore del tempo, Feodosia, Il francobollo egiziano di Osip Mandel’stam (Einaudi, traduzione di Giuliana Raspi), schizzi più che disegni compiuti nei quali tuttavia emerge l’essenziale, l’azione o il momento o lo scambio dialogico nei quali si riassume, se non lo spirito del tempo, il suo significato, la sua ragione e soprattutto la sua incongruenza, il suo o i suoi difetti, il suo squilibrio, le ingiustizie, onnipresenti, inarrestabili, come acqua che penetra tra le fessure del legno, le tradizioni, i comportamenti acquisiti, l’architettura tutta di una società che vuole percepirsi inattaccabile ed eterna e che per mantenere questa illusione è disposta a tutto. E il poeta vede ogni cosa, osserva bambino dalle panchine di un parco pubblico come dagli scaffali della libreria di casa, una casa ebraica in Russia: “E non volete la chiave dell’epoca, un libro che si arroventa a toccarlo, un libro che a nessun costo voleva morire e che nella bara angusta degli anni novanta giaceva come vivo, un libro i cui fogli erano ingialliti prima del tempo, o perché l’avevano molto letto o per il sole delle panchine in villeggiatura, la cui prima pagina mostra il volto di un giovinetto dall’ispirata pettinatura all’indietro, un volto che è diventato un’icona? Guardando attentamente il viso del giovinetto Nadson, io mi stupisco dello schietto fervore di quei lineamenti e, nello stesso tempo, della loro totale inespressività, della loro quasi legnosa semplicioneria. Non è così tutta l’epoca? Se l’avessero mandato a Nizza, gli avessero mostrato il Mediterraneo, egli avrebbe seguitato a cantare il suo ideale e la sua generazione, tutt’al più avrebbe aggiunto un gabbiano e la cresta dell’onda“.

Il poeta giudica ma senza acrimonia, senza desiderio di vendetta, senza volontà di rivincita. Accetta semplicemente che il tempo scorra e porti via con sé stagioni che persone prive della necessaria sensibilità immaginano eterne, quasi che la vita, solo perché lo si desidera, possa cristallizzarsi in un eterno presente, dove ciò che conta ora continuerà a contare, qualsiasi cosa accada (“Non voglio parlare di me, ma seguire il secolo, il rumore e l’evolversi del tempo”). E questa finzione, destinata a sgretolarsi, a finire in pezzi, a svelarsi nella sua ridicola tragicità, si fa immagine letteraria di squisita leggerezza, nel personaggio di Parnok, che prende il posto dell’autore nelle pagine de Il francobollo egiziano, un ebreo naturalmente, come ebreo era Mandel’stam, stretto d’assedio da una realtà cui appartiene ma che pure, in qualche misteriosa maniera, gli è estranea, che parla un linguaggio che egli non è in grado di comprendere, o che, peggio, precipita qualunque cosa nel silenzio, come se fosse già stata detta a sufficienza, e chi non ha ascoltato, perché era distratto o privo degli strumenti necessari per capire, dia colpa a se stesso: “Nel mese di maggio Pietroburgo ricorda un po’ un ufficio informazioni che non funziona: specialmente nella zona di piazza del Palazzo. Qui tutto è terribilmente pronto per l’inizio di una seduta storica con i fogli bianchi di carta, con le matite ben temperate e con la caraffa d’acqua bollita. Ripeto ancora una volta: la grandezza di quel luogo sta nel fatto che le informazioni non sono date mai e a nessuno”. 

Eccovi l’incipit. Buona lettura.

Ricordo bene gli anni squallidi della Russia: gli anni novanta, il loro lento strisciare, la loro tranquillità morbosa, il loro profondo provincialismo – una quieta insenatura: l’ultimo rifugio di un’epoca morente.

2 commenti su “Gli anni squallidi della Russia”

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