Recensione di “I figli della mezzanotte” di Salman Rushdie
“Ahmed Salman Rushdie nasce in un’agiata famiglia musulmana di Bombay il 19 giugno
1947, alcuni mesi prima che l’India e il Pakistan ottengano l’indipendenza dall’Inghilterra […]. Insieme alle tre sorelle trascorre un’infanzia felice in un ambiente in cui si parla sia inglese sia urdu, lingua indiana derivata dal persiano e tipica della minoranza musulmana. Nel 1961, all’età di quattordici anni, Rushdie viene mandato a Rugby, nel Warwickshire, perché frequenti una delle scuole più esclusive d’Inghilterra. L’esperienza si rivelerà assai deludente per il giovane, vittima di numerosi atti razzisti perpetrati dai compagni. In questi anni Rushdie abbandona la fede musulmana, senza però rinnegare la cultura e l’appartenenza islamica. Mentre Salman si trova all’estero a studiare, la sua famiglia , seguendo l’esodo musulmano verso la ‘Terra dei puri’ (in urdu appunto ‘paki-stan’) si trasferisce, non senza una certa riluttanza, da Bombay a Karachi. Al rientro dall’Inghilterra Rushdie, abituato all’ambiente aperto, multiculturale e quasi cosmopolita di Bombay, rimane sconvolto dal cambiamento“. In questo dettaglio biografico – Rushdie costretto a misurarsi con una realtà che si rivela l’esatto opposto di quella da lui conosciuta, apprezzata e fatta propria, al netto degli odiosi torti subiti, o meglio anche attraverso essi e la loro necessaria elaborazione, non solo nel corso della parentesi vissuta in Occidente ma ancor prima e con ancor maggior profondità di quella, che più che realtà è stile di vita, abito, assaporata negli anni della primissima gioventù a Bombay – risiedono con ogni probabilità idea e senso del romanzo I figli della mezzanotte (Mondadori, traduzione di Ettore Capriolo), vertiginosa opera letteraria che è nel medesimo tempo saga familiare, fantasioso (e fantastico) arabesco romanzesco, cronaca storica e trattato di critica politica (feroce e impietosa); il tutto giocato su un registro linguistico che non fa che sorprendere il lettore, si compiace di prenderlo alla sprovvista disseminando lungo un cammino di 500 pagine (narrato in forma di confessione autobiografica) indizi su eventi di eccezionale importanza – su tutti l’indipendenza dell’India, proclamata il 15 agosto del 1947 – mettendo in pagina, come fosse nulla, temi cruciali come la dicotomia (e il suo possibile o impossibile superamento) tra religione e scienza, vestendo gli orrori di ogni fanatismo con i panni grotteschi e coloratissimi dell’iperbole tragicomica, ricorrendo alla sfrenatezza, all’esagerazione studiata dell’immaginazione per denunciare l’assurdità cui l’uomo, vittima di se stessa e della propria cecità, riesce a portare i fatti che lo riguardano.
Romanzo e storia in qualche misura universale – Rushdie attraversa i generi letterari con la noncuranza di un viaggiatore che conosce già a menadito ogni panorama ma che proprio in virtù di questa suo vasto bagaglio di sapere indovina sempre, per ogni luogo toccato, cosa portare con sé e cosa tralasciare – I figli della mezzanotte sfugge a ogni definizione, rifiuta qualsiasi ancoraggio. Così, pur avendo in mano, con quel po’ di essenziale trama che il volume rivela in quarta di copertina – “Il libro narra le vicende dei mille bambini nati il 15 agosto 1947, allo scoccare della mezzanotte: il momento, cioè, in cui l’India ha proclamato la propria indipendenza dall’Impero britannico. Tutti costoro posseggono doti straordinarie: forza erculea, capacità di diventare invisibili e di viaggiare nel tempo, bellezza soprannaturale. Ma nessuno è capace di penetrare nel cuore e nella mente degli uomini come Saleem Sinai, il protagionista che, ormai in punto di morte, racconta la propria tragicomica storia” – quel che davvero il lettore si trova tra le mani è qualcosa di multiforme, un oggetto misterioso il cui disegno, come quello di una nuvola, muta con impressionante facilità, o conserva comunque la capacità di farlo in qualsiasi istante e dunque rimane per tutto il tempo una scoperta mai compiuta perché in un attimo può rivelarsi altra cosa da ciò che è stato fino a un momento prima. Non può sorprendente dunque come tutto, la storia di un Paese, anzi di due, e quella di una famiglia, anzi di più di una famiglia, venga illuminata (perché Rushdie nel raccontare non rifiuta certo la responsabilità di rendere ragione di ciò che dice, specie laddove la verità dei fatti fatica a mostrare un senso, una giustificazione) da doti che non appartengono all’uomo, ma più ancora da una persona particolare, un singolo, il nonno di Saleem, medico, il cui naso, incontrata la terra con forza eccessiva nel corso di una preghiera, perde, in seguito all’impatto, tre gocce di sangue: “Tre gocce di sangue caddero dalla sua narice sinistra, s’indurirono istantaneamente nell’aria fredda e andarono a posarsi sotto i suoi occhi sul tappeto da preghiera, trasformate in rubini“.
Romanzo da leggere tutto d’un fiato, capace di divertire, commuovere, entusiasmare ma più di tutto di rendersi per molti versi indimenticabile, I figli della mezzanotte, non diversamente dai rubini che fa nascere nelle primissime pagine, è un puro gioiello letterario.
Eccovi l’incipit. Buona lettura.
Io sono nato nella città di Bombay… tanto tempo fa. No, non va bene, impossibile sfuggire alla data: sono nato nella casa di cura del dottor Narlikar il 15 agosto 1947.