Recensione di “AL’altalena del respito” di Herta Müller
“Quando nell’estate del 1944 l’Armata Rossa era già avanzata profondamente in Romania,
il dittatore fascista Antonescu fu arrestato e giustiziato. La Romania capitolò e in maniera assolutamente improvvisa dichiarò guerra alla Germania nazista, con la quale era stata alleata fino ad allora. Nel gennaio del 1945 il generale sovietico Vinogradov richiese al governo rumeno, in nome di Stalin, che tutti i tedeschi abitanti in Romania fossero impiegati nella ‘ricostruzione’ dell’Unione Sovietica distrutta dalla guerra. Tutti gli uomini e le donne in un’età compresa tra i diciassette e i quarantacinque anni furono deportati in campi di lavoro sovietici. Anche mia madre trascorse cinque anni in un campo di lavoro. Il tema della deportazione era tabù, perché ricordava il passato fascista della Romania. Solo in famiglia e con gli amici intimi, i quali erano stato anch’essi deportati, si parlava degli anni di Lager. E anche allora soltanto per allusioni. Queste conversazioni furtive hanno accompagnato la mia infanzia. I contenuti non li capivo, ma percepivo la paura. Nel 2001 cominciai ad annotare conversazioni con gli ex deportati del mio villaggio. Sapevo che anche Oskar Pastior era stato deportato e gli raccontai che avrei desiderato scrivere su questo tema. Lui volle aiutarmi con i suoi ricordi. Ci incontrammo regolarmente, lui raccontava e io prendevo appunti. Presto tuttavia nacque il desiderio di scrivere insieme il libro. Quando nel 2006 Oskar Pastior improvvisamente morì io avevo quattro quaderni pieni di appunti manoscritti e gli abbozzi per il testo di alcuni capitoli. Dopo la sua morte ero come impietrita. La vicinanza personale di quegli appunti rese ancora più grande la perdita. Solo un anno riuscii a risolvermi e a congedarmi dal ‘noi’, e a scrivere da sola un romanzo. Ma senza i dettagli sulla vita quotidiana del Lager che mi aveva fornito Oskar Pastior non ci sarei riuscita“. Con queste parole della postfazione Herta Müller, premio Nobel per la Letteratura nel 2009, racconta la genesi dello splendido, indimenticabile L’altalena del respiro (Feltrinelli, traduzione di Margherita Carbonaro) diario di un incubo fatto di fame, miseria, umiliazione, lavoro forzato che tuttavia delle terribili, angoscianti ma impalpabili, e in qualche misura perfino ultraterrene, atmosfere del sogno dentro al quale si resta imprigionati fino a un risveglio che riesce sempre, per quanto imperfettamente, a essere liberatorio, a offrire un’ombra di sollievo, finanche un’ingannatrice apparenza di esso, che pure si riceve con gratitudine, non ha nulla. Ogni pagina di questo libro stilla sangue, sudore, soffre i crampi di uno stomaco torturato dalla cronica insufficienza di cibo, ha la pelle consumata dai morsi di cimici e pidocchi, la mente bruciata, carbonizzata dall’ossessione della sopravvivenza quotidiana, che cancella ogni pensiero che non sia legato, che non dipenda, in una meccanica, indistruttibile, disumana (anzi antiumana, studiatamente inumana, non umana) catena di montaggio di causa ed effetto, dalla salvezza del corpo in disfacimento.
Non è un caso che proprio nella postfazione ci sia la chiave di lettura, il codice di decifrazione della lingua del romanzo. Nel descrivere come e perché questo lavoro questo lavoro è nato, la scrittrice offre al lettore non tanto le ragioni stilistiche del libro quanto il senso profondo della sua fatica archeologica: se non ci sono parole per dire ciò che non solo non può essere detto ma ciò che non si vuole dire, che non è permesso e che non ci si concede di esprimere – “. Il tema della deportazione era tabù […]. Solo in famiglia e con gli amici intimi, i quali erano stato anch’essi deportati, si parlava degli anni di Lager. E anche allora soltanto per allusioni. […] I contenuti non li capivo, ma percepivo la paura” – allora è necessario far nascere una lingua nuova, che condivida, nel significato e in ciò che il significato evoca, la realtà del dolore, che abbia la forza di incidere che appartiene alle ferite inferte, che possieda l’ostinata resistenza al tempo di un marchio a fuoco. E allora ecco le parole della fame farsi cibo nei discorsi delle donne, instancabili nell’assaporare nei solchi delle labbra spaccate, violentate dal gelo, i minimi dettagli delle ricette dei piatti che si preparavano abitualmente nei giorni di festa, o in particolari ricorrenze, ecco le parole farsi sapore, sfrigolare nelle padelle e nei forni, avere la lucentezza del grasso animale spennellato d’olio, la morbidezza di un ripieno pensato ingrediente per ingrediente, preparato con cura nello scorrere di giorni dedicati al cibo che verrà portato in tavola in modo non dissimile da come si dedicavano le giornate alle divinità, al loro culto; e ancora ecco le parole del lavoro essere lo sfinimento che procura, e il carbone spalato farsi amico del prigioniero che lotta ogni giorno contro la morte, quando gentile (per la sua consistenza, per ciò che la sua natura fisica lo fa essere) si lascia raccogliere docile dalla pala e altrettanto docilmente sistemare, oppure condurre alla disperazione nel momento in cui, incandescente, si incolla alla grata di scarico costringendo i forzati a procurarsi ustioni dolorosissime a ogni turno, ustioni che diverranno piaghe e poi, nell’assenza pressoché totale di cure mediche, chissà cos’altro – “La polvere di carbone è lanuginosa e spessa un dito. Ma dopo ogni turno la cantina è pulita perché ogni turno è un’opera d’arte“.
Forse in nessun altro romanzo (tranne in alcune opere di Cormac McCarthy) le parole riescono, oltre che a dire le cose, ad assumerne la realtà, il peso, a esserne la verità, non solo a rappresentarla; quella verità la cui responsabilità noi uomini non facciamo altro che fuggire, senza mai trovare il coraggio di riconoscere la nostra viltà.
Eccovi l’incipit. Buona lettura.
Tutto quel che ho lo porto con me.