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L’eroico antieroe

recensione - follie di brooklyn - paul austerDichiarare di averne abbastanza, di non voler più vivere, per quanto convintamente lo

si faccia, non porta alla fine di tutto. Non esiste alcun meccanismo di causa-effetto tra sofferenza (e di nuovo, non se ne discute la sincerità; partiamo dal presupposto che chi dichiara di stare male stia davvero male) e morte per suicidio. A comprenderlo nel modo più chiaro e diretto, per esperienza, è Nathan Glass, pensionato più che benestante (la sua carriera di assicuratore ramo vita – quando si dice l’ironia delle cose – gli ha permesso di guadagnare più che bene) malato di cancro (in remissione), alle spalle un divorzio e un rapporto non proprio idilliaco con la figlia. Glass è a un tempo protagonista e personaggio tra gli altri, carattere tra i tanti, di Follie di Brooklyn di Paul Auster (Einaudi, traduzione di Massimo Bocchiola), romanzo che sembra scivolare leggero lungo la delicata, ironica china di disavventure che strappano spesso sorrisi e che tuttavia lasciano immancabilmente qualcosa dietro di sé, una traccia, l’occasione di ripensarle, rimeditarle, guardarle di nuovo da un punto di vista differente, in qualche misura originale, quello di chi, superata la sorpresa della vicenda appena scoperta, appena assaporata, riesce, semplicemente proseguendo nella lettura, a metterla a fuoco meglio, arrivando a raggiungere, al di là dell’accadimento, oltre il fatto, quel che ne è il fondamento, dunque il suo senso (o la sua assoluta mancanza di senso). Così Glass, deciso a riempire ore e giorni che immagina privi di impegni, con la stesura di un libro (o forse di un diario, o ancora di una raccolta) sulla follia umana, nelle bizzarrie si trova immerso fino al collo quasi senza accorgersene, e per una sorta di ironico contrappasso toccherà proprio a lui, così provato dai suoi anni non sempre felici, offrire equilibrio e speranza e seconde possibilità a esistenze quasi irrimediabilmente naufragate.

Quella del nipote Tom per prima, lanciata verso una carriera accademica che sembrava promettere soltanto successi e finita invece (ma si tratta veramente della fine?) sul sedile di un taxi, in viaggio notte dopo notte, strada dopo strada, al servizio di individui per descrivere i quali a volte le parole non sono sufficienti; e come se Tom non bastasse, quella ancor più drammatica di sua sorella, introvabile all’indomani di un matrimonio che avrebbe dovuto salvarla (dopo anni caratterizzati da eccessi di ogni genere) e che invece si rivela essere qualcosa di molto prossimo a un incubo, una assurdità terribile e pericolosissima sulla quale sarà possibile fare luce soltanto grazie alla piccola Lucy, nipote di Tom che un giorno, del tutto inaspettatamente, si presenta alla porta di Glass. Ma non sono soltanto le vicende familiari dell’eroico antieroe Nathan Glass a squadernare l’abisso senza fondo delle umane debolezze (di mente, di volontà di scelta, di coerenza, di moralità); ovunque quest’uomo tra i tanti – eppure per molti aspetti così eccentrico rispetto a tutti gli altri, talmente originale, o forse saggio, o addirittura folle, folle come i folli di cui non si stanca, per tutto il libro, di raccontare, malato però di quella particolare forma di pazzia che probabilmente è la sola saggezza possibile cui la tragica imperfezione dell’uomo può arrivare – getti lo sguardo quel che si trova davanti è un quadro di denso di ombre: parossismi di gelosia che sfociano nella intollerabile violenza fisica psicologia del possesso a tutti i costi, il delirio amoroso di un truffatore tanto innocente e puro nel suo sentimento da offrirsi inerme a una vendetta di inaudita ferocia, l’egoistica cecità di chi non riesce a pensare che a soddisfare i propri appetiti.

Eppure, sembra dirci Auster, nella notte più nera le stelle brillano con incredibile intensità, e infatti in qualche modo i nodi che vanno accumulandosi nel romanzo trovano nelle pagine conclusive felice scioglimento, all’insegna di un ottimismo forse eccessivo ma che sarebbe ingeneroso definire ingenuo, un po’ perché Auster ha dato vita a un romanzo che mantiene dal principio alla fine il tono lieve della commedia, ma soprattutto perché lo scrittore americano riserva all’ultima pagina (il cui contenuto non svelo; potrebbe capitare qui qualcuno che ancora non conosce questo lavoro) un ribaltamento di prospettiva che altro non è se non l’ineludibile confronto con la realtà. Che a ben pensarci è ciò di cui la letteratura è fatta.

Eccovi l’incipit. Buona lettura.

Stavo cercando un posto tranquillo per morire.

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