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… E imparai a raccontare

Recensione di “Racconti indiani” di Jaime de Angulo

Jaime de Angulo, Racconti indiani, Adelphi

“Pochi uomini riescono a trascendere la propria origine etnica e le proprie tradizioni culturali, al punto di penetrare e comprendere intimamente la vita di un popolo straniero. Jaime de Angulo era uno di quegli uomini. I quarant’anni che egli passò tra gli indiani Pit River della California gli permisero di identificarsi con i suoi compagni a un grado tale che, si può ben dire, non vi era sentimento loro che non fosse anche suo […]. Jaime de Angulo si rendeva conto – sia razionalmente sia intuitivamente – che la trasposizione linguistica di una certa atmosfera, di sentimenti e di fantasie non può essere affidata a eruditi.

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L’oscuro eroismo della tenacia

Recensione di “Furore” di John Steinbeck

John Steinbeck, Furore, Bompiani

“Non si dissero altro quella sera. Mangiarono, parlarono, risero, poi venne il momento di far dormire Cristiano. Emma si chiuse in camera, sistemò il piccolo nella culla e rimase con lui finché non si addormentò. Il ragazzo la aspettò in bagno, appoggiato al lavandino, il libro aperto davanti a sé che guardava senza vedere. Le pagine coperte da una fitta, indecifrabile foresta d’inchiostro; le parole che lui così tanto amava e in quel momento non gli erano di nessun aiuto.

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Lo sconfinato narrare che affratella Pynchon e Wilde

Recensione di “Vizio di forma” di Thomas Pynchon

Thomas Pynchon, Vizio di forma, Einaudi
Thomas Pynchon, Vizio di forma, Einaudi

Imprevedibile alchimista del romanzo, sperimentatore geniale, archeologo letterario, scomodo ritrattista di storie dimenticate dalla storia stessa, Thomas Pynchon si concede la (calcolata) debolezza artistica e personale dello struggimento, di una sincera, nostalgica dichiarazione d’amore, ma, fedele alla propria vocazione alla burla, alla follia lucidissima del sistematico rovesciamento di prospettiva, al fascino del paradosso elegante, del cinismo squisito, della raffinata autoironia, dell’umorismo puntuto e irresistibilmente scorretto, trasforma questo suo delicato omaggio alla stagione perduta della giovinezza e della libertà (quella dei primissimi anni settanta) in un noir meravigliosamente sconclusionato, dove si rincorrono eccessi, dove ogni trama è disegnata nei contorni morbidi, imprecisati e potenzialmente universali del sogno e i personaggi che la vivono e interpretano sfoggiano una contagiosa improbabilità che li rende miracolosamente adatti al puntuale verificarsi dell’assurdo.


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