Lo sconfinato narrare che affratella Pynchon e Wilde
Recensione di “Vizio di forma” di Thomas Pynchon
Imprevedibile alchimista del romanzo, sperimentatore geniale, archeologo letterario, scomodo ritrattista di storie dimenticate dalla storia stessa, Thomas Pynchon si concede la (calcolata) debolezza artistica e personale dello struggimento, di una sincera, nostalgica dichiarazione d’amore, ma, fedele alla propria vocazione alla burla, alla follia lucidissima del sistematico rovesciamento di prospettiva, al fascino del paradosso elegante, del cinismo squisito, della raffinata autoironia, dell’umorismo puntuto e irresistibilmente scorretto, trasforma questo suo delicato omaggio alla stagione perduta della giovinezza e della libertà (quella dei primissimi anni settanta) in un noir meravigliosamente sconclusionato, dove si rincorrono eccessi, dove ogni trama è disegnata nei contorni morbidi, imprecisati e potenzialmente universali del sogno e i personaggi che la vivono e interpretano sfoggiano una contagiosa improbabilità che li rende miracolosamente adatti al puntuale verificarsi dell’assurdo.
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