
Scrittore, compositore, giurista, Ernst Theodor Wilhelm (nome cambiato nel 1812 in Amadeus in omaggio a Mozart) Hoffmann incarna nello stesso tempo una delle più limpide e affascinanti voci del romanticismo tedesco e la sua coscienza inquieta. La sua prosa, nitida, ordinata, persino rassicurante nel suo svolgersi formale, si carica, nel momento in cui la narrazione prende vita, di richiami angosciosi, suggestioni oscure, rimandi al mondo caotico delle emozioni, al labirinto inesplorato (e per molti versi inesplorabile) della psiche e alle creazioni, di sogno e d’incubo, cui dà vita. Ed è proprio l’intreccio tra questi due opposti a dare l’esatta misura della grandezza di Hoffmann, esteta del linguaggio e tessitore del delirio, geniale sperimentatore e realista rigoroso (le sue storie, specie quelle contenute in una delle raccolte più celebri, intitolata Racconti notturni, oltre a nascere da situazioni comuni, sono talmente complesse e ricche di rimandi da non poter essere considerate semplicemente come fantastiche), autore disciplinatissimo e ipnotico affabulatore attratto irresistibilmente da ogni più piccolo elemento di irrazionalità. Come il più diligente degli studiosi, Hoffmann guarda al suo mondo di riferimento, quello ordinato e sonnolento della vita della provincia tedesca tra fine Settecento e primo Ottocento, ma quel che vede, al di là dell’immutabilità delle tradizioni e delle convenzioni sociali, è una trama destabilizzante, potenzialmente distruttiva; qualcosa che alberga in ogni singolo uomo (l’uomo razionale cui nessun traguardo è negato, entusiasticamente esaltato dal secolo dei lumi, e l’uomo spirituale caro al pensiero romantico) e assume le sembianze mostruose della paura, dell’ossessione, del ricordo traumatico. Il realismo di Hoffmann è dunque insieme il punto di partenza e quello d’arrivo del suo narrare, perché l’apparente normalità delle cose che descrive si regge sul suo opposto, sul disordine, un disordine che prende forme diverse ma che ha un solo denominatore comune, l’uomo, modello spogliato di ogni idealità – sia essa romantica, illuminista o umanistico-rinascimentale – e ridotto a mero oggetto di indagine. Nella prima delle vicende che compongono Racconti notturni – L’orco insabbia, che suscitò l’attenzione di Sigmund Freud – l’uomo preso in esame da Hoffmann non è che un bambino, Nataniele, talmente terrorizzato da una storia raccontata dalla sua tata (una di quelle storie innocue con le quali si spaventano i piccoli che non intendono cedere al sonno) da non riuscire più a liberarsene. L’ossessione per la creatura evocata dalla tata, un orco che prima getta sabbia negli occhi dei bimbi e poi li rapisce, sconvolge la vita di Nataniele anche in età adulta (prima egli lo identifica con un amico del padre, poi con un venditore ambulante dal quale acquista un binocolo con cui spiare la vicina di casa, che lui ignora essere una bambola meccanica), finché – in un momento particolarmente significativo, quando Nataniele è in compagnia della fidanzata, in preda a un sentimento, l’amore, riconosciuto come valore e dunque accettato e promosso dal mondo borghese – la paranoia prende il sopravvento e conduce l’uomo al suicidio. In Ignazio Denner, invece, è l’inganno a essere protagonista. Denner, infatti, ricco e munifico mercante, si prende cura di un povero cacciatore di nome Andrea e della sua sposa, ma presto si scopre che l’uomo non è quel che sembra, bensì lo spietato capo di una banda di briganti che infesta la zona. Venuta alla luce la verità (ed ecco qui un altro tema centrale per il grande scrittore tedesco, la valenza negativa del vero, che, svelando la presenza del caos, la sua realtà, distrugge irrimediabilmente ogni illusione di ordine, razionalità e bontà nel mondo), tutto precipita: Denner, che in realtà è il padre della moglie di Andrea, finisce per uccidere uno dei suoi figli. In altre storie (Il maggiorasco, La casa disabitata) è decisamente più marcato l’accento sul fantastico, su atmosfere da romanzo gotico; qui sembra che l’irrazionale non sia più il sostrato del reale, che l’irrompere della paura, dell’assurdo, richieda necessariamente uno slancio della fantasia (non è il più il mondo che conosciamo, insomma, a essere intrinsecamente folle, ma solo la libertà creatrice a rifiutare qualsiasi tipo di limitazione), tuttavia, non bisogna dimenticare che anche quando sembra allontanarsi maggiormente dai temi prediletti della sua attività letteraria, Hoffmann non ne perde mai di vista l’essenza, l’origine, e cioè la componente umana. Questo fa sì che la fiaba, il mito, il racconto di pura invenzione siano per l’autore espedienti narrativi, cornici entro cui ambientare le sue riflessioni.