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A precipizio verso la fine

Recensione di “Non è un paese per vecchi” di Cormac McCarthy

 

Cormac McCarthy, Non è un paese per vecchi, Einaudi
Cormac McCarthy, Non è un paese per vecchi, Einaudi

 

Cormac McCarthy è uno degli autori più importanti dell’intera storia della letteratura. Come la terra di cui racconta – quella selvaggia, primitiva, arida e ostinata che si stende fra Texas e Messico in vallate che paiono infinite e allo sguardo offre l’abbacinante nudità del deserto e l’ergersi orgoglioso e solitario di contrafforti e picchi rocciosi – la sua scrittura vive nella circolarità perfetta e infinita del tempo che scandisce l’alternarsi delle stagioni. È il battito del cuore della natura, la sua armonia, la sua bellezza; è il miracolo dell’indicibile che si muta in parola.

La produzione di McCarthy è una teoria di capolavori, a partire dai romanzi che compongono la Trilogia della frontiera (in special modo il primo di essi, Cavalli selvaggi) fino al violentissimo e primordiale Meridiano di sangue. Ogni suo libro esercita un’irresistibile forza d’attrazione. Scegliere di leggere Cormac McCarthy equivale a scoprire un mondo. Una riflessione a parte, tuttavia, quantomeno per l’insolita struttura del romanzo, merita Non è un paese per vecchi, tragico canto del cigno di un’età dell’uomo che a grandi passi si avvia verso l’estinzione. Costruito come una sceneggiatura densa di colpi di scena (non a caso i fratelli Coen ne hanno tratto un film; a mio avviso semplificando colpevolmente e nella sostanza tradendo il senso del lavoro di McCarthy, ma è solo un parere personale, che molti di voi probabilmente non condivideranno), Non è un paese per vecchi è in realtà la dolente presa di coscienza dell’insanabile frattura che separa il tempo in cui l’umanità ha avuto la forza, morale prima ancora che materiale, di dar vita all’organismo sociale all’interno del quale è potuta crescere, da quello (odierno) nel quale la creatura, sfuggita al controllo del suo creatore, ha cominciato a divorare se stessa.

Spettatore di questo disfacimento, di questa Apocalisse tanto più terrificante perché di fattura esclusivamente umana, è l’anziano sceriffo Ed Tom Bell, alle prese con una realtà che sembra averlo espulso da sé (lui, con il suo educato rispetto verso gli altri, l’amore semplice per la moglie, l’ingenua dedizione al lavoro, la limpida coscienza del bene e del male e del confine che divide l’uno dall’altro) come un corpo espelle una sostanza estranea, e che da ogni parte gli urla addosso il linguaggio incomprensibile della violenza, dell’odio feroce, della volontà di dominio, della supremazia della brutalità. Lo sceriffo Bell è l’incarnazione della coscienza dell’uomo moderno (di quel che ne resta), la cui voce si fa ogni giorno più flebile.

Ora McCarthy. L’incipit del romanzo. La prima, indimenticabile riflessione dello sceriffo Bell. Buona lettura.

Un ragazzo ho mandato alla camera a gas di Huntsville. Uno e soltanto uno. Su mio arresto e mia testimonianza. Sono andato a trovarlo due o tre volte. Tre volte. L’ultima volta il giorno dell’esecuzione. Non ero tenuto ad andarci, ma ci sono andato lo stesso. E non ne avevo certo voglia. Aveva ammazzato una ragazzina di quattordici anni e posso dirvi subito che non ho mai avuto questa gran voglia di andarlo a trovare né tantomeno di assistere all’esecuzione però ci sono andato lo stesso. I giornali scrissero che era un crimine passionale e lui mi disse che la passione non c’entrava per niente. Lui con quella ragazzina ci usciva insieme, anche se era così piccola. Il ragazzo aveva diciannove anni. E mi disse che da quando si ricordava aveva sempre avuto in mente di ammazzare qualcuno. MI disse che se fosse uscito di galera l’avrebbe rifatto daccapo. Disse che lo sapeva che sarebbe andato all’inferno. Proprio così, parole sue. Io non so cosa pensare. Non lo so proprio. Mi pareva di non aver mai visto uno come lui e mi è venuto da chiedermi se magari non era un nuovo tipo di persona.

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