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La cultura tradita e la parodia di un crimine

Recensione di “Il Consiglio d’Egitto” di Leonardo Sciascia

 

recensione - Leonardo Sciascia, Il Consiglio d'Egitto, Adelphi
Leonardo Sciascia, Il Consiglio d’Egitto, Adelphi

Dicembre 1782. Il vascello su cui viaggia Abdallah Mohamed ben Olman, ambasciatore del Marocco alla corte di Napoli di ritorno al proprio Paese natale, naufraga a causa di una tempesta poco lontano dalle coste siciliane; il diplomatico, incolume, si ritrova a Palermo. Un’occasione da non perdere per le gerarchie ecclesiastiche locali, in possesso da oltre un secolo di un codice arabo che nessuno è in grado di leggere. Può trattarsi di un autentico tesoro, o di un documento di scarsa importanza, ora finalmente è possibile saperlo senza ombra di dubbio.

Ma c’è un ostacolo non di poco conto da risolvere: sua eccellenza Abdallah non parla né francese né napoletano, e nessuno, né all’interno della chiesa né al palazzo del vicerè conosce larabo. Per buona sorte di tutte le parti in causa, in città bighellona, dividendosi nella duplice incombenza di fracappellano dell’Ordine di Malta e “numerista” del lotto, Don Giuseppe Vella, figura di poco o nessun conto che, pur senza passarsela male, non è soddisfatto della propria condizione; costretto a vivere in casa della nipote, “con mezza dozzina di bambini che parevano sortiti dalla bocca dell’inferno e un capo di casa, marito della nipote e padre di quei bambini, ozioso e ubriacone”, Vella sogna ben altri agi, e abbondanti ricchezze, utili, anzi indispensabili, per cavarsi qualsiasi voglia gli venga in mente. Convocato dal vicerè in virtù della sua scarsa (ma comunque preziosissima in quel frangente) conoscenza dell’arabo, il fracappellano viene incaricato di prendersi cura dell’ambasciatore per tutto il tempo della sua permanenza siciliana, e così, al seguito di quell’uomo, tocca con mano la vita che avrebbe sempre voluto vivere: “sere che dolcemente trascorrevano tra bellissime donne, incanti di luci, di sete, di specchi, toccante musica, soavissimo canto; e le delicatezze della tavola, l’illustre compagnia”.

È nella delizia della sua nuova condizione, offuscata dal timore, o meglio dalla certezza, di perdere ogni cosa non appena l’illustre ben Olman avesse lasciato Palermo per riprendere il viaggio verso casa, che Vella mette a punto il proprio inganno: al momento di tradurre le impressioni dell’ambasciatore sul codice (che in realtà non è che una comunissima vita del profeta Maometto, “una vita del profeta […] niente di siciliano: una vita del profeta, ce ne sono tante), decide di mentire e di trasformarlo in una testimonianza documentale di valore immenso: “Sua eccellenza dice che si tratta di un prezioso codice: non ne esistono di simili nemmeno nei suoi paesi. Vi si racconta la conquista della Sicilia, i fatti della dominazione…”. Il piano di Giuseppe Vella è semplice: offrirsi come traduttore del testo fingendo di mantenere una fitta corrispondenza con l’ambasciatore (ripartito per il Marocco circa un mese dopo il suo fortunoso arrivo), e in tal modo garantirsi i privilegi toccati con mano accanto a quell’uomo così importante.

Questo, a grandi linee, l’intreccio de Il Consiglio d’Egitto di Leonardo Sciascia, romanzo storico mirabile per eleganza stilistica e insieme apologo gustosissimo e amaro sulla verità e il suo opposto, sull’uomo e le sue brame. Sciascia si cala nel passato con il rigore di uno studioso; restituisce al lettore la realtà di molte figure, a partire da quella dello stesso Vella, l’esattezza del contesto e dell’ambientazione del romanzo, ne evoca i colori, i profumi, le atmosfere, dà alla sua scrittura un ritmo spedito, quasi incalzante, e nello stesso tempo ne stempera le tensioni con puntuti inserti di fine, raffinata ironia. La Sicilia al tramonto del secolo dei lumi, magmatica, confusa, oscura, corrotta, vitale, opulenta e misera, nella magistrale prosa di Sciascia diviene specchio della realtà in cui versa oggi non solo la regione che ha dato i natali a uno dei massimi scrittori del Novecento (il romanzo è stato pubblicato per la prima volta nel 1963, ma risulta ancora di estrema attualità), bensì l’Italia intera. E Vella, che ordisce la propria truffa spinto “[…] dall’ansia di perdere certe gioie appena gustate, dall’innata avarizia, dall’oscuro disprezzo per i propri simili”, furbo al punto da concepire qualcosa di infinitamente più grande di lui ma non abbastanza intelligente da riuscire a controllare la propria colossale bugia, l’immortale archetipo della miseria della condizione umana.

Acutamente consapevole della sostanziale verità insita nella distinzione pirandelliana tra “scrittori di cose” e “scrittori di parole”, Sciascia affida a uno dei protagonisti del suo splendido romanzo, l’avvocato Di Blasi, nobile animato da un autentico spirito riformista e da un potente slancio rivoluzionario (che pagherà carissimo) l’illustrazione delle proprie convinzioni etiche, della sua idea di cultura e del compito che è chiamata ad assolvere, dimostrandosi una volta di più insuperabile maestro della parola, ma soprattutto autentico scrittore di cose. Probabilmente il più grande scrittore di cose nella storia della letteratura italiana. “[…] questo non è un volgarissimo crimine. Questo è uno di quei fatti che servono a definire una società, un momento storico. In realtà, se in Sicilia la cultura non fosse, più o meno coscientemente, impostura; se non fosse strumento in mano al potere baronale, e quindi finzione, continua finzione e falsificazione della realtà, della storia… Ebbene, io vi dico che l’avventura dell’abate Vella sarebbe stata impossibile… Dico di più: l’abate Vella non ha commesso un crimine, ha soltanto messo su la parodia di un crimine, rovesciandone i termini… Di un crimine che in Sicilia si consuma da secoli”.

Ora l’incipit del romanzo. Buona lettura.

Il benedettino passò un mazzetto di penne variopinte sul taglio del libro, dal faccione tondo soffiò come il dio dei venti delle carte nautiche a disperdere la nera polvere, lo aprì con un ribrezzo che nella circostanza apparve delicatezza, trepidazione. Per la luce che cadeva obliqua dall’alta finestra, sul foglio color sabbia i caratteri presero rilievo: un grottesco drappello di formiche nere spiaccicato, secco. Sua eccellenza Abdallah Mohammed ben Olman si chinò su quei segni, il suo occhio abitualmente languido, stracco, annoiato era diventato vivo ed acuto. Si rialzò un momento dopo, a frugarsi con la destra sotto la giamberga: tirò fuori una lente montata, oro e pietre verdi, a fingerla fiore o frutto su esile tralcio.

“Ruscello congelato” disse mostrandola. Sorrideva: ché aveva citato Ibn Hamdis, poeta siciliano, per omaggio agli ospiti. Ma, tranne don Giuseppe Vella, nessuno sapeva di arabo: e don Giuseppe non era in grado di cogliere il gentile significato che sua eccellenza aveva voluto dare alla citazione, né di capire che si trattava di una citazione. Tradusse perciò, invece che le parola, il gesto “La lente, ha bisogno della lente”; il che monsignor Airoldi, che con emozione aspettava il responso di sua eccellenza su quel codice, aveva capito da sé.

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