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Una gloriosa, indimenticabile sconfitta

recensione - Saul Bellow, Il dono di Humboldt
Saul Bellow, Il dono di Humboldt, Oscar Mondadori

Definito dal suo stesso autore “un romanzo comico sulla morte”, Il dono di Humboldt di Saul Bellow, pubblicato nel 1975 (un anno prima che lo scrittore statunitense ricevesse il Nobel per la letteratura) e insignito del premio Pulitzer, oltre a essere un’agrodolce riflessione sul senso dell’esistere e sulla sua conclusione, è la ruvida esplorazione del mondo interiore di un uomo, delle sue speranze, dei sogni coltivati, delle sconfitte patite, delle illusioni cullate a dispetto di tutto e di tutti.

Forse più che in qualsiasi altro suo lavoro, qui Bellow azzarda, sperimenta, e sceglie di raccontare (eliminando la suddivisione in capitoli) una vicenda che si snoda in 600 pagine nello stile disordinatamente violento del flusso di coscienza, affastellando, su un presente zoppicante, impreciso come lo sfondo in penombra di un palcoscenico, grumi di ricordi, lunghe parentesi analitiche sui più disparati argomenti, apologhi, sentenze tanto brevi quanto taglienti – “Uno studente del corso di metafisica, un giorno chiese al filosofo Morris Cohen: «Come faccio a sapere, professore, che io esisto?». Al che l’arguto vecchio: «Chi è che me lo chiede?»”; “Una volta che hai letto Psicopatologia della vita quotidiana sai che la vita quotidiana è psicopatologica”.

È il tempo l’assoluto protagonista di questo romanzo; il tempo inteso come metafisica misura del nostro vivere (dunque il tempo considerato nella dimensione dell’eternità, oppure in quella della memoria, pietoso sistema di autodifesa per mezzo del quale ci illudiamo di non aver perso completamente coloro che non abbiamo più accanto e nello stesso tempo proviamo a noi stessi di non essere ancora divenuti ombre, spettri), e il tempo della quotidianità, quello che ognuno di noi sperimenta e conosce, oppresso dalle urgenze materiali, sfibrato dai bisogni personali, consumato, come da un cancro, dall’ossessione del denaro e della gloria.

È in questo tempo che si muovono Charlie Citrine, commediografo di successo, e Von Humboldt Fleisher, poeta estroso e imprevedibile, uomo di genio, spirito raffinatissimo e inquieto, rapito dallo splendore dei versi e per converso, quasi per una sorta di diabolico contrappasso, incapace di rapportarsi con il mondo (cui riserva esclusivamente velenoso disprezzo, di fronte al quale denuncia complotti osceni partoriti dalla sua sovraeccitata fantasia); ieratico bardo destinato all’Olimpo ma condannato prima all’alcol e agli antidepressivi e infine alla pazzia. A Humboldt, suo amico e mentore, Citrine deve tutto, la ricchezza, la considerazione del mondo accademico e culturale, la fama; e a quel poeta bellissimo e goffo, un tempo grande e ora dimenticato, costretto a trascinare i propri giorni nello squallore di alberghetti di quart’ordine e nella miseria del cibo stentato, racimolato con fatica, egli dedica pensieri, ricordi commossi, intrisi d’affetto autentico come di colpevole rimorso. Ma non è la gratitudine a spingerlo verso Humboldt, è la sua vita, che sembrerebbe perfetta e invece è un caos irrimediabile, un groviglio di fallimenti; perduto nel rimpianto di amori che sarebbero stati perfetti se solo fosse stato capaci di viverli, divorziato, con due figlie che ama ma che non vede quanto vorrebbe e l’ex consorte decisa a privarlo di tutto quel che possiede, adescato da una giovane e spregiudicata amante che mira soltanto alle sue sostanze (che Citrine scialacqua senza neppure rendersi conto di farlo, o senza badare alle conseguenze), circondato da amici di dubbia fedeltà e fragilissima onestà, il celebre uomo di lettere, l’intellettuale ammirato, sprofonda in un abisso che pare non avere fine. E tuttavia non è la povertà a terrorizzarlo, bensì l’incapacità di trovare una ragione per il suo essere vivo, e un significato per tutto ciò che ha riguardato Humboldt, per le sue poesie, per la sua fine indecorosa; Citrine, vivendo, cerca, muovendosi come un cane impazzito tra platonismo, teosofia, antroposofia, criptospiritismo e adunate angeliche, il perché della vita, e in questa sua inesausta caccia non fa che imbattersi in tante piccole morti, amputazioni successive dello spirito umano. E la morte peggiore che deve affrontare, la più terribile, è quella della poesia, quella che spiega il fallimento di Humboldt (così come quello dello stesso Citrine); qui Bellow è nello stesso momento visionario e lucidissimo, è un apocalittico profeta che, gettato uno sguardo alla sfera di cristallo, disperatamente ispirato parla la lingua dell’oggi, quella del potere, della tecnica, dell’efficienza: “Può infatti una poesia caricarti su a Chicago e sbarcarti a New York dopo due ore? O può eseguire calcoli per un volo spaziale? Non ha tali poteri. E l’interesse è dove è il potere. Ai tempi antichi la poesia era una forza: il poeta possedeva una forza concreta nel mondo materiale. Certo, il mondo materiale era diverso allora. Ma quale interesse poteva suscitare Humboldt? Egli si abbandonò alla debolezza e divenne un eroe della disgrazia. E diede il suo consenso al monopolio del potere e dell’interesse detenuto dal denaro, dalla politica, dalla legge, dalla razionalità, dalla tecnologia, poiché non riusciva a vedere che cosa di nuovo e necessario i poeti potessero fare. Fece invece qualcosa di vecchio: si procurò una pisola, come Verlaine”.

Romanzo splendido, di un’intensità e di una profondità uniche, Il dono di Humboldt è il racconto di una resa incondizionata, la cronaca di una battaglia perduta. Ma è anche una luminosa opera d’arte, un purissimo scintillare letterario, una gloriosa, indimenticabile sconfitta.

Eccovi l’inizio (il magnifico lavoro di traduzione è di Pier Francesco Paolini). Buona lettura.

Il libro di ballate pubblicato da Von Humboldt Fleisher negli anni Trenta riscosse un immediato successo. Humboldt era, appunto, colui che tutti quanti attendevano. Io per me l’aspettavo ardentemente, dal mio fondo di provincia nel Midwest, ve l’assicuro. Scrittore d’avanguardia, il primo della sua generazione, era bello, era biondo, grande e grosso, serio e insieme spiritoso, ed era colto. Insomma, aveva tutto. Nessun giornale mancò di recensire il suo libro. La sua foto comparve su «Time» senza ingiurie e su «Newsweek» con elogi. Io lessi con trasporto, le Ballate di Arlecchino. Ero studente all’Università del Winsconsin e non pensavo ad altro, giorno e notte, che alla letteratura. Humboldt mi rivelò nuovi orizzonti, nuovi modi di fare. Andavo in estasi. Gli invidiavo il talento e la fortuna. Invidiavo la sua fama. E a maggio me ne andai all’Est proprio per lui: contando di vederlo, magari di avvicinarlo. Il viaggio, in corriera, passando per Scranton, durò una cinquantina di ore. Che importava? Guardavo dal finestrino aperto: non avevo mai visto, prima, vere montagne. Gli alberi mettevano gemme e germogli. Pareva la Pastorale di Beethoven. Mi sentivo inondare di verde, dentro di me. Anche Manhattan mi andò subito a genio. Mi affittai una camera per tre dollari la settimana, e trovai un lavoro: vendevo spazzole di porta in porta. Tutto quanto mi dava una selvaggia eccitazione. Siccome avevo scritto a Humboldt una lunga lettera, da ammiratore, venni presto invitato a casa sua, per conversare di letteratura, di altre cose elevate. Abitava in Bedford Street, nel Greenwich Village, poco lontano da Chumley’s.

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