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Dormono, dormono sulla collina

Recensione di “antologia di Spoon River” di Edgar Lee Masters

 

 
Edgar Lee Masters, Antologia di Spoon River, Mondadori
Edgar Lee Masters, Antologia di Spoon River, Mondadori

“Ottant’anni, una vita passata a inseguire la poesia e, dopo averla incontrata per una breve e felice stagione, a rimpiangerla, a cercare con accanimento di ritrovarla. Edgar Lee Masters è l’uomo di un solo straordinario libro, con il passare del tempo amato più all’estero che in patria”. Ecco quanto si legge nella prefazione all’edizione Mondadori dell’Antologia di Spoon River, capolavoro letterario che l’autore scrisse all’età di quarantacinque anni, tra il maggio del 1914 e i primissimi giorni di gennaio del 1915.


I versi febbrili – disordinati e saturi d’emozione come soltanto un’ispirazione improvvisa e rapinosa riesce a essere – delle sue poesie-epitaffio (ogni componimento racconta la vita, il più delle volte riassunta in rimorsi e rimpianti, degli abitanti della piccola cittadina di Lewistown, nella quale Masters crebbe, ma è presente anche un altro borgo, Petersburg, dove i suoi nonni paterni vissero per gran parte della vita) danno vita a un canto meravigliosamente armonico, appassionato e struggente insieme, a un racconto travolgente, fiabesco e oscuro che si legge d’un fiato e che pure, pagina dopo pagina si interrompe bruscamente, rivelando lo spettacolo meraviglioso e patetico di uomini e donne e dei loro giorni trascorsi tra pianti, risa, passioni, desideri e sconfitte.

Lo splendore dell’Antologia di Spoon River è ovunque: nell’intimità di esistenze impantanate nel sogno di un’irraggiungibile felicità che si fanno specchio della condizione dell’uomo nel mondo, del significato ultimo del suo essere vivo; nell’apertura del libro, in quelle tombe disseminate su una collina, dove tutti riposano e dove la fine si fa inizio, dove il tempo mortale di ciascuno di loro trasfigura nella circolare eternità del tempo naturale, dell’infinito avvicendarsi delle stagioni, e diviene principio della narrazione; nella perfezione descrittiva dei sentimenti, del segreto palpitare dei moti dell’animo (“Lo so che raccontava che io avevo catturato l’anima sua/con una tagliola che lo faceva sanguinare a morte”; “Padre, mai potrai conoscere/l’angoscia che afflisse il mio cuore per la mia disobbedienza,/il momento che sentii la ruota spietata della locomotiva/affondare nella carne urlante della mia gamba”; “A tutto il paese senza dubbio poteva sembrare/che io andassi di qui e di là senza una direzione./Ma qui lungo il fiume al crepuscolo puoi vedere i pipistrelli che volano a zig-zag/qui e là – devono volare in quel modo per procurarsi il cibo”).

Poeta autentico, Edgar Lee Masters ha scritto sulle ali di un’ambizione smisurata; si è assunto un compito sublime e terribile e ha dipinto l’universale nella minuzia del particolare. Al laborioso riposo dei morti di Spoon River non ha affidato soltanto recriminazioni, miserie ed egoistici particolarismi; al pari di un dio, o di un demone, egli ha sottratto uomini e donne all’oblio cui erano destinati per donar loro l’immortalità delle idee, la perfezione dei pensieri, l’invulnerabilità di ciò che si crede per fede, l’irrefrenabile potenza della convinzione. La poesia che abbatte ogni barriera, che sa parlare una lingua differente da tutte le lingue conosciute e proprio per questa ragione comprensibile a chiunque, non è quella miracolosa del verso, della purezza intangibile dello stile, ma quella ruvida, sincera, spontanea dell’io che urla se stesso, è lo strillo acuto del neonato, della vita che trionfa. E così, i corpi tumulati sulla collina, prima insieme e poi ciascuno per sé, divengono voci di un dover essere del mondo che è il sogno ad occhi aperti del poeta: non c’è tema che Masters nei suoi ritratti abbia timore di toccare, non c’è argomento di fronte al quale si ritragga, dalla follia militarista al libero arbitrio.

Come dimenticare il rovente j’accuse di Knowlt Hoheimer, il “primo frutto della battaglia di Missionary Ridge”: “Quando ho sentito la pallottola entrarmi nel cuore/ho desiderato di essere rimasto a casa e di andare in prigione per il furto dei maiali a Curl Trenary,/invece che involarmi e arruolarmi./Mille volte meglio la prigione della contea che essere sepolto sotto una statua di marmo con le ali,/con sopra scritte le parole Pro patria./ A proposito, che vogliono dire?”; o l’amara disillusione della signora Merritt, che sconta, di fronte alla spietata maschera perbenista della società, il suo “peccato d’amore”: Silenziosa davanti alla giuria,/neanche una parola di risposta al giudice/che mi chiedeva se io non avevo qualcosa da dire contro la sentenza,/scuotevo soltanto la testa./Cosa potevo dire a della gente che pensava/che una donna di trentacinque anni è colpevole/quando il suo amante di diciannove anni uccide suo marito?”; o ancora la metafora sulla libertà che all’improvviso si fa realtà e uccide il suo più grande ammiratore, Roger Heston: “Oh, quante volte Ernest Hyde ed io/abbiamo discusso sul libero arbitrio./ La mia metafora favorita era la mucca di Prickett tenuta legata al pascolo,/e libera, come si sa, nella misura consentita dalla lunghezza della fune./Un giorno mentre al solito si discuteva,/guardando la mucca che tirava la fune per spingersi oltre il cerchio che aveva pelato mangiando,/il piolo venne fuori e sollevando la testa quella cicaricò./«Cos’è questo, libero arbitrio o cos’altro?» disse Ernest correndo./Io caddi proprio quando quella m’incornò a morte.”?

Opera tra le più celebri della storia della letteratura, L’Antologia di Spoon River è un libro imprescindibile; per quanto oggi risenta di una certa stanchezza (più stilistica che di contenuto a mio avviso), tra le sue pagine soffia inesausto un alito di verità, che tutti riguarda e a tutti appartiene.

P.S. Da questo libro, Fabrizio De Andrè, altra monumentale figura di poeta, ha tratto ispirazione per uno dei suoi dischi migliori, intitolato Non al denaro, non all’amore né al cielo. Nel caso non lo conosciate, mi permetto di suggerirvelo insieme all’Antologia di Spoon River.

Eccovi l’incipit, la poesia intitolata La Collina. Buona lettura.

 
Dove sono Elmer, Herman, Bert, Tom e Charley,
il debole di volontà, il fortebraccio, il clown,
il bevitore, l’aggressivo?
 
Uno consunto dalla febbre,
uno si è bruciato nella miniera,
uno fu assassinato in una rissa,
uno è morto in galera,
uno è caduto dal ponte lavorando duro per moglie e figli –
tutti, tutti ora dormono, dormono, dormono sulla collina.
 
Dove sono Ella, Kate, Mag, Lizzie ed Edith,
la cuor tenero, l’anima semplice, la chiassosa,
l’orgogliosa, la felice? –
tutte, tutte ora dormono sulla collina.
 
Una è morta di parto clandestino,
una di un amore contrastato,
una tra le mani di un bruto in un bordello,
una di orgoglio ferito, all’inseguimento
del desiderio del cuore,
una dopo una vita passata lontano tra Londra e Parigi
fu riportata al suo piccolo spazio vicino a Ella e a Kate
e a Mag –
tutte, tutte ora dormono, dormono, dormono sulla collina.
 
Dove sono zio Isaac e zia Emily,
e il vecchio Tony Kincaid e Sevigne Houghton,
e il maggiore Walker che aveva potuto parlare
con gli uomini venerabili della rivoluzione? –
Tutti, tutti ora dormono sulla collina.
 
Hanno portato loro figli morti in guerra,
e figlie schiantate dalla vita, e gli orfani piangendo, –
tutti, tutti ora dormono, dormono, dormono sulla collina.
 
Dov’è il vecchio Fiddler Jones violinista
che ha eseguito la vita per tutti i suoi novant’anni,
sfidando neve e pioggia a petto nudo,
bevendo, ribellandosi, che non gli importava nulla di una moglie,
né dei parenti, né dei soldi, né dell’amore, né del cielo?
Eccolo qui! che farfuglia del pesce fritto di un tempo,
delle corse dei cavalli di tanti anni fa a Clary’s Grove,
di quello che una volta

Abe Lincoln disse a Springfield.

4 commenti su “Dormono, dormono sulla collina”

  1. Mi ricordo perfettamente quando ho letto questo libro su suggerimento di un’amica più grande. Facevo la seconda liceo scientifico. Una scoperta grandissima, un amore mai più dimenticato. A spizzichi l’ho riletto molte altre volte, senza contare De André.

    1. Il mio percorso è stato inverso. Prima il disco, poi la lettura di un’intervista “impossibile” a Edgar Lee Masters di Fernanda Pivano (che corredava l’album di De Andrè) e infine il libro. Avevo 19 anni; avevo letto che De Andrè aveva letto il libro a 18, non volevo essere da meno, e soprattutto speravo che così facendo avrei potuto avvicinarmi al mio idolo, fare quasi i suoi stessi passi e così somigliargli nelle splendide cose che faceva. Ah, i sogni della gioventù!

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