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Homo homini lupus

Recensione di “Il cinese” di Henning Mankell

Henning Mankell, Il cinese, Marsilio
Henning Mankell, Il cinese, Marsilio

Svezia, un piccolo, anonimo villaggio. Il nome del luogo è Hesjövallen, è il 13 di gennaio del 2006. Il freddo, intensissimo, sembra essere ovunque, come il silenzio, un silenzio innaturale, minaccioso. Spinto dalla fame, guidato dall’istinto, un lupo raggiunge l’abitato; a muovere i suoi passi non è la prudenza ma la disperazione. L’animale sa che tutt’intorno a sé ci sono uomini e che dovrebbe tenersi a distanza di sicurezza da loro, tuttavia qualcosa lo costringe ad avanzare, qualcosa che non è semplicemente bisogno di cibo. C’è odore di sangue in quel villaggio, e il lupo l’ha sentito; “l’odore del sangue è vicino, il lupo ne è certo.

Si accuccia al margine della foresta cercando di capire da dove venga. Poi comincia ad avanzare lentamente nella neve. L’odore proviene da una delle case alla fine del piccolo villaggio. Il lupo si muove cautamente […]. Si ferma di nuovo. L’odore proviene dal retro di una casa. Rimane in attesa. Riprende a muoversi. Quando raggiunge la casa vede un cadavere. Afferra la preda pesante e la trascina verso la foresta. Non lo ha visto nessuno, nessun cane ha abbaiato. Il silenzio nella mattina gelida è assoluto. Arrivato nella foresta il lupo comincia a mangiare. La carne non è congelata. Non fa fatica. Ha molta fame. Dopo avere staccato a morsi uno scarpone, attacca la caviglia”.

Comincia così, nell’assoluta, terrificante assenza dell’elemento umano (che dopo poche pagine, inevitabilmente, riprenderà il sopravvento, portando con sé il lettore in un viaggio d’incubo segnato da atroci sofferenze e implacabili vendette), Il cinese di Henning Mankell, giallo complesso, intricatissimo e ambizioso che guarda alla ricchezza del romanzo storico e la intreccia a una rigorosa analisi politico-sociale del presente. Quasi sentisse la necessità di mettersi una volta di più alla prova come autore (non solo come giallista ma come narratore tout court), lo scrittore svedese, noto in tutto il mondo per aver dato vita al commissario di polizia Kurt Wallander, sostituisce il suo celebre personaggio con un mosaico di fatti e persone; egli dunque in qualche misura rinuncia a un protagonista, a una figura centrale, per mettere la storia al centro della narrazione, una storia che ha inizio con il ritrovamento di diciannove cadaveri. Lo sgomento e l’orrore causati dalla scoperta lasciano ben presto il posto alla necessità di agire; è necessario trovare il responsabile del massacro, ed è necessario farlo al più presto, ma è proprio qui che le cose si complicano, perché la pista più accreditata, secondo la quale un eccidio di queste proporzioni non può che essere opera di un pazzo, si rivela inconsistente. Chi è stato, allora? Chi può aver fatto una cosa del genere? E perché?

Nella ricostruzione del movente, le cui radici si perdono nel tempo ma non nella memoria, e i cui segreti, seppur taciuti, o rivelati a pochi, tormentano come rimorsi, emerge la figura del giudice Birgitta Rosling; a lei, ma soltanto in parte, tocca il ruolo che in una lunga serie di romanzi è stato di Wallander, perché Rosling si ritrova sì a investigare sul tremendo fatto di sangue avvenuto a Hesjövallen, ma come parte in causa, non nelle neutri vesti di inquirente. I genitori adottivi di sua madre, infatti, risultano tra le persone uccise, e questo convince il giudice (il cui giuramento, tratto dall’Ordinamento giudiziario svedese, Mankell pone al principio del romanzo, per sottolineare con forza l’incolmabile distanza esistente tra la lettera della legge e la sua applicazione, sempre viziata dal fattore umano, poco importa che a muovere le persone siano le migliori intenzioni, il personale “senso” di ciò che è giusto e di ciò che non lo è: “Io […] giuro sul mio onore […] di non distorcere mai la legge o favorire ingiustamente qualcuno per via di parentela, amicizia, invidia, malevolenza o interesse […]. Tutto questo io voglio e manterrò fedelmente, come giudice onesto e leale”) a cercare la verità. E la verità, che erroneamente si crede celata dal trascorrere degli anni, è invece scritta a lettere di fuoco nelle conseguenze delle scelte degli uomini, nei loro peccati, che come eco maligna del peccato originale si trasmettono di padre in figlio, diventano eredità di generazioni, e ogni generazione contaminano e avvelenano finché il canto di sirena della vendetta, della rivalsa, della resa dei conti non riesce a far tacere ogni altra voce, finché su ogni altra ragione non prevale quella del sangue.

Tumultuoso nel suo procedere, ricco di colpi di scena come d’umanità e di pietà, lucido nella rappresentazione dell’oggi tanto quanto è puntuale nella descrizione del passato, Il cinese è molto più di un solido romanzo giallo. Leggetelo, non lo dimenticherete.

Eccovi L’incipit. La traduzione, per Marsilio, è di Giorgio Puleo. Buona lettura.

Skare, freddo intenso, solstizio d’inverno. Nei primi giorni di gennaio 2006 un lupo solitario entra in Svezia dalla Norvegia attraversando il confine a Vauldalen. Un uomo che guidava un gatto delle nevi sostiene di averlo intravisto poco lontano da Fjällnäs, ma il lupo scompare nella foresta, verso est, prima che qualcuno riesca a vedere dove sta andando.

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