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Cristo delle trincee

Recensione di “E Johnny perse il fucile” di Dalton Trumbo

Dalton Trumbo, E Johnny prese il fucile, Bompiani

Cosa resta di un giovane tornato dalle trincee del primo conflitto mondiale senza più volto, cieco, sordo, muto e privo di tutti e quattro gli arti? Cosa si può dire di lui? Che è morto anche se il suo cuore non si è fermato? Che è vivo perché il suo cervello non smette di pensare e di inviare impulsi elettrici a quel che resta della sua carne, al tronco e allo stomaco violentato da un tubo d’acciaio attraverso cui passa l’indispensabile nutrimento? Cosa possono dire i medici di questo ragazzo, ferito tra milioni di feriti, mutilato tra milioni di mutilati eppure così diverso da ciascuno di loro da essere un caso unico al mondo? Di averlo salvato? Di averlo condannato? Di essere riusciti in un miracolo o di aver dato corso a un orrore indicibile? E cosa può dire di se stesso questo ragazzo? Cosa può pensare? Cosa può desiderare? Cosa può sperare?

Di fronte a tutte queste domande, molte delle quali destinate a rimanere senza risposta (o per dir con più esattezza destinate a non avere una risposta soddisfacente), ossessivamente ripetute a se stesso, si trova, come dinanzi a una parete liscia e immensa impossibile da scalare, l’ex soldato Joe Bonham, protagonista di E Johnny prese il fucile dello sceneggiatore americano Dalton Trumbo.

Unico romanzo scritto da Trumbo (che circa trent’anni dopo la sua pubblicazione divenne anche un film, diretto dallo stesso Trumbo), E Johnny prese il fucile è molto più di un angoscioso, straziante e indimenticabile apologo antimilitarista. È un’opera narrativa complessa, che fin dal registro linguistico – Trumbo rinuncia alla punteggiatura, non solo per far partecipare quanto più possibile il lettore al flusso di coscienza del suo personaggio, travolgerlo nel vortice del suo febbrile ragionare; sconvolgerlo allo stesso modo in cui viene sconvolto Johnny quando a sorprenderlo nel sonno sono incubi terribili; terrorizzarlo proprio come è terrorizzato il povero Johnny quando realizza, poco alla volta, passo dopo passo, di non essere più niente, solo un pezzo di carne condannato a consumarsi in un letto; spingerlo a ribellarsi insieme a Johnny nei momenti in cui questo ragazzo, rimasto vivo malgrado tutto, vuole vivere, pretende di vivere e cerca con tutti i mezzi di farlo, di non arrendersi; ma anche perché in questo modo il corto circuito emotivo di Johnny risulta essere una cosa sola con il suo riflettere, il suo domandare, il suo porre questioni, il suo chiedere perché permettendo al romanzo, che è anche un romanzo a tesi, di prendere posizione e dichiarare a chiare lettere che non esiste alcuna ragione ideale o di qualsiasi altra natura che, pesata sulla bilancia di fronte alla semplice concretezza del vivere, valga il sacrificio di un uomo ucciso da una pallottola nemica, soffocato da un gas, dilaniato da una granata – scava nel cuore e nella mente del lettore trascinandolo nel baratro di un fatto compiuto per il quale non c’è e non può esserci giustificazione possibile.

La guerra, il bersaglio di Trumbo, quell’insensato sterminarsi l’un l’altro di cui l’uomo sembra non potersi privare, nelle pagine del capolavoro dello sceneggiatore statunitense non è che un’ombra; è la minacciosa nuvola temporalesca che si avvicina quando Joe, sempre sospeso tra sonno e veglia, ricorda i suoi anni spensierati, i suoi amori, le delusioni cocenti dell’adolescenza che sembrano così forti da spezzare un’esistenza e gli entusiasmi che in un istante spengono ogni dolore lasciando le membra elettrizzate a formicolare di felicità; e subito dopo è la teoria di macerie che rimane una volta passato l’uragano.

E l’istante successivo è Johnny, è quel che resta di lui e il suo lottare così pietoso e commovente per cercare di capire dove si trovi, da quanto tempo sia lì, che giorno sia quel giorno e che anno sia quell’anno; è il suo brancolare alla ricerca di un modo per tornare nel mondo, per comunicare, per ascoltare e farsi ascoltare. “In un angolino della sua mente si accese come una scintilla. Se fosse riuscito in qualche modo a servirsi delle vibrazioni avrebbe potuto comunicare con questa gente. Poi la scintilla divenne una grande luce bianca accecante. Gli apriva prospettive così vertiginose che credette di soffocare. Le vibrazioni erano una parte molto importante delle comunicazioni. Il tonfo che produce un piede sul pavimento era un tipo di vibrazione. Il martellare del telegrafo era semplicemente un altro tipo di vibrazione. Da ragazzo tanto tempo fa forse quattro o cinque anni fa possedeva un apparecchio radiotelegrafico. Lui e Bill Harper si telegrafavano l’un l’altro. Punto linea punto linea punto […]. L’alfabeto Morse se lo ricordava ancora. Non doveva fare altro che starsene sdraiato e trasmettere punti e linee all’infermiera per ristabilire il contatto col mondo. Sarebbe stato il suo modo di parlare. Avrebbe rotto il muro del silenzio dell’oscurità della disperazione”.

Lungo quel che resta del corpo straziato di Joe, che non avrebbe mai voluto imbracciare un fucile ma che pure è stato costretto costretto a farlo dal suo Paese in nome della libertà, della dignità, in nome di cose che nessuno era mai riuscito a fargli vedere, a mettergli davanti agli occhi, vita e morte si combattono e si fondono perché quel che di lui è tornato dal fronte, è insieme tanto vita quanto morte; Joe è dunque un simbolo contradditorio e universale, e lo è a tal punto che pur privo di bocca e lingua possiede le parole (ed è il solo in tutto il pianeta a possederle) per farsi ascoltare dai vivi come dai morti, da quell’immensa marea umana di sciocchi che non sa cosa significhi vivere e cosa significhi morire. Con il suo tragico alfabeto Morse, dunque, egli chiede a coloro che lo hanno salvato riducendolo a qualcosa di innominabile di riportarlo nel mondo, di riportarlo tra la gente, Cristo delle trincee con la sua novella adattata ai tempi nuovi: “Portatemi nelle scuola in tutte le scuole del mondo. Lasciate che i pargoli vengano a me non si dice così? Da principio grideranno e avranno gli incubi la notte ma poi si abitueranno perché devono abituarsi prima o poi ed è meglio che lo facciano finché son giovani. Riuniteli tutt’intorno alla mia cassa e dite tu bambina e tu bambino venite qui e date un’occhiata al vostro papà. Venite a guardarvi come ci si guarda in uno specchio. Da grandi diventerete così quando crescerete e diventerete dei grossi uomini forti sarete così. Avrete la possibilità di morire per il vostro paese. E se non morirete potreste tornare indietro così. Non tutti muoiono miei cari bambini”.

Eccovi l’incipit del romanzo. La traduzione, per Bompiani, che ha anche una bella prefazione di Goffredo Fofi, è di Milli Graffi. Buona lettura.

P.S. Sarò via per qualche giorno di vacanza; spero vorrete continuare a seguire il blog; le recensioni, del resto, non mancano. Buone vacanze anche a tutti voi.

Se quel telefono avesse smesso di suonare. Stava già abbastanza male senza bisogno di un telefono che gli trillava nelle orecchie tutta la notte. Dio se stava male. E non era neanche colpa di uno di quei loro aspri vini francesi. Nessuno poteva berne tanto da ridursi così. Aveva lo stomaco sconvolto. Possibile che nessuno si decidesse a rispondere al telefono? Pareva che squillasse in una stanza enorme, larghissima. Anche la sua testa era enorme. Telefono fottuto.

4 commenti su “Cristo delle trincee”

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