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Tra sogni, ricordi e dybbuk

Recensione di “Racconti” di Isaac B. Singer

Isaac B. Singer, Racconti, Corbaccio

Una geografia che resiste tenace nei ricordi dei sopravvissuti, che al di là della polvere degli anni, della volontà di annientamento dell’uomo sull’uomo e dei verdetti della storia, replica se stessa nelle leggende orali, nelle memorie piene d’orrore, nella volontà di rivincita o forse soltanto nel rifiuto dell’oblio.

Una geografia fitta di luoghi che, così come sono stati in passato, non esistono più né mai torneranno a essere, una geografia legata a una stagione e a un vivere che quasi sfumano nell’inconsistenza del sogno a occhi aperti, stretta come un abbraccio attorno alle società chiuse dei villaggi, alle millenarie tradizioni che ne scandivano il perpetuarsi, all’eterno ricorso ai libri di preghiera, alla devozione al Dio creatore dell’universo e ai dubbi che i suoi imperscrutabili disegni fanno sorgere perfino nelle anime dei più pii fra i pii, all’improvviso manifestarsi del meraviglioso e dell’inesplicabile, le cui maschere possono indifferentemente essere quelle colme di pietà e grazia del miracolo e quelle ghignanti e beffarde della maledizione. Questa geografia di terre e uomini che è a un tempo cronaca ed epopea spirituale, eco di un pensiero e di un sapere antichi quando l’idea stessa di tempo e racconto tragicomico di destini individuali e collettivi è il luccicante palcoscenico all’interno del quale Isaac B. Singer ambienta i suoi splendidi e suggestivi Racconti, in Italia raccolti e pubblicati da Corbaccio.

Il mondo ebraico radicato nella povertà ostile dell’Europa Orientale, quel brulicare di esistenze e miti che la furia distruttrice del nazismo cancellò in un solo colpo, è il soggetto principale del lavoro di Singer, la cui prosa elegante, sempre magistralmente in equilibrio tra dramma e commedia, riso e pianto, paradiso e inferno, accompagna il lettore alla scoperta di una realtà capace a ogni istante di superare i propri limiti oggettivi, di sporgersi al di là della miseria immediata e concreta per confondere il proprio respiro con quello del cosmo, incrociare con i propri occhi quelli di Dio, mescolare le proprie parole con l’essenza del vero. A proposito della sua raccolta, e della scelta (non casuale)della forma espressiva del racconto, è lo stesso autore, nel prologo dell’edizione citata (datata luglio 1981) a spiegarsi: “Sebbene la forma racconto non sia molto in voga oggigiorno, credo ancora che essa costituisca la sfida ultima per uno scrittore. A differenza del romanzo, che può reggere e persino giustificare le lunghe digressioni, le analessi e una struttura debole, il racconto deve puntare dritto al proprio climax. Deve possedere una tensione e una suspense ininterrotte. E poi, la brevità è la sua vera essenza. Il racconto deve avere un progetto preciso, non può essere uno «spaccato di vita» […]. La letteratura vera informa mentre intrattiene. Riesce a essere al contempo chiara e profonda. Ha il magico potere di mescolare causa e scopo, dubbio e fede, le passioni della carne con gli struggimenti dell’anima. È unica e generale, nazionale e universale, realistica e mistica. Mentre ammette che altri la commentino, non dovrebbe mai cercare di spiegare se stessa”.

Perfettamente a proprio agio nello spazio definito (ma per nulla angusto) della brevità, dove il superfluo non ha diritto di cittadinanza né la digressione – poco importa quanto elegante sia – può pretendere di farsi ascoltare, Singer, personaggio tra gli altri nei quadri da lui disegnati (in più di un racconto egli è, se non il protagonista, uno dei caratteri principali, mentre in tutti gli altri è ebreo tra gli ebrei, membro del suo popolo), come un viaggiatore innamorato di un Paese che conosce a memoria e che pure continua a stupirlo, incantandolo con meraviglie che hanno la misteriosa capacità di apparire sempre nuove ai suoi occhi, non si stanca di rappresentare le pressoché infinite sfaccettature di un esistere tanto ricco quanto contraddittorio, da una parte così profondamente radicato nell’intreccio tra umano e divino da richiamare la libertà e finanche la sfrenatezza del mito pagano e dall’altra incatenato nel rigido perimetro di regole comportamentali stabilito dall’ortodossia chassidica, in base alle quali da nulla che non sia ebreo può derivare alcunché di buono. Nell’attrazione continua di questi due estremi, nella tensione verso il congiungimento di questi poli opposti, esplodono i colorati fuochi d’artificio dell’amore, della gelosia, dei tradimenti, delle fughe e dei ritrovamenti; irrompe l’inesplicabile (ed ecco apparire anime disincarnate senza pace che prendono possesso di corpi vivi, e defunti che pretendono di mantenere, sul mondo che un tempo li accolse, la medesima influenza che avevano quando erano in vita e che per riuscirci affollano i sogni di coloro che hanno amato), ciò che non si comprende, di cui si ha terrore e che si cerca di scongiurare attraverso preghiere, amuleti e scongiuri; e non ultimo resiste, in chi, senza neppure sapere come, non è stato consumato nel fuoco dell’inferno nazista, lo sconsiderato affetto verso una vita impossibile da comprendere ma che non per questo merita d’essere odiata, o peggio rifiutata.

Eccovi l’incipit di Gimpel l’idiota, primo racconto della raccolta, che tra le altre novelle contiene anche Yentl, diventato nel 1983 un film diretto e interpretato da Barbra Streisand. Buona lettura.

Sono Gimpel l’idiota, ma non credo di essere stupido. Anzi. Però i compaesani mi chiamano così. Mi diedero questo nomignolo quando andavo ancora a scuola; di nomignoli ne avevo in tutto sette: imbecille, somaro, testa di rapa, tonto, allocco, sciocco e idiota. Fu quest’ultimo a restarmi appiccicato. In che cosa consisteva la mia idiozia? Mi lasciavo turlupinare facilmente.

3 commenti su “Tra sogni, ricordi e dybbuk”

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