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La tragedia e l’opera buffa

Recensione di “Ghiaccio Nove” di Kurt Vonnegut

Kurt Vonnegut, Ghiaccio Nove, Feltrinelli

Una prosa stralunata, scelte stilistiche che suonano casuali, pagine che sembrano crescere senza criterio, come fiori selvaggi, eppure stupiscono, affascinano, conquistano per armonia, bellezza e profondità. È prezioso l’apparente disordine creativo di Kurt Vonnegut, in assoluto uno degli scrittori più brillanti e sorprendenti del Novecento, perché non solo di geniale bizzarria si tratta; lo scrittore americano sceglie di raccontare quasi nascondendosi, alzando le spalle dinanzi ai temi che affronta, guardandoli da una distanza di sicurezza, come se non lo interessassero davvero, degnandoli di un’attenzione superficiale, di un sorriso appena abbozzato, a metà tra la noia e il pallido divertimento. E così Vonnegut colleziona arabeschi, intreccia paziente trame che profumano d’assurdo, accosta senza nessuna paura argomenti cruciali perché grazie al suo approccio clownesco, indifferente all’oscurità come alla luce, ne depotenzia alla radice l’importanza, riducendoli a materia narrativa qualsiasi. Ma non è, il suo, un lavoro distruttivo, è vero anzi il contrario; egli ride di tutto, certo, ma soltanto perché in questo modo di tutto ha la libertà di parlare, tutto ha la possibilità di presentare all’attenzione dei lettori. In Ghiaccio Nove, pubblicato nel 1963, l’autore affronta addirittura lo spettro terribile dell’olocausto nucleare, e insieme la natura delle dittature e dei culti religiosi (che altro non sono se non una forma di tirannia spirituale). Protagonista del romanzo è uno scrittore, John o Jonah (“Chiamatemi Jonah” si legge al principio del volume, citazione di uno dei più famosi incipit della storia della letteratura immediatamente ridotto in burla: “I miei genitori mi chiamavano più o meno così. Mi chiamavano John”). Come l’Ismaele di Melville, tocca a Jonah l’onere di narrare, e la sua storia coincide con quella del libro che avrebbe voluto scrivere da giovane (“Doveva essere un libro basato sui fatti. Doveva essere un resoconto di quanto avevano fatto gli americani di una certa importanza il giorno in cui la prima bomba atomica fu sganciata su Hiroshima, in Giappone. Doveva essere un libro cristiano. Io ero cristiano, all’epoca. Adesso sono bokononista). Il libro porta Jonah a concentrarsi in modo particolare su Felix Hoenikker, lo scienziato premio Nobel che ha costruito l’atomica, i cui frammenti di vita gli vengono raccontati dai tre figli dell’uomo; quel che emerge dalle loro testimonianze è il ritratto di una persona interamente votata al proprio lavoro, incapace di provare affetto per chiunque e di mantenere stabili relazioni interpersonali, ma soprattutto sempre alla ricerca di soluzioni rivoluzionarie, l’ultima delle quali, realizzata dietro insistenti richieste della Marina Militare, è una microparticella in grado di congelare istantaneamente i liquidi innescando una reazione a catena praticamente impossibile da fermare.

È sulla minuscola isola di San Lorenzo (dove vive uno dei figli di Hoenikker), “indiscussa capitale mondiale dei barracuda” guidata dallo spietato dittatore Miguel “Papa” Monzano, che Jonah e gli altri rampolli Hoenikker si ritrovano; ed è in questo sperduto angolo di mondo, dove il credo bokononista è allo stesso tempo diffusissimo e crudelmente perseguito (lo stesso Bokonon, il padre fondatore della religione, si nasconde lì), che l’apocalisse si compie. Monzano, malato di cancro e vicinissimo alla morte, decide di farla finita utilizzando per congelarsi la particella di “ghiaccio nove” in possesso di uno dei figli di Hoenikker, ma per un incidente il suo corpo finisce in mare, dando inizio a una nuova glaciazione. Per il mondo è la fine.

L’amara parabola di Vonnegut, che soltanto nelle ultime pagine si abbandona a descrizioni dense, cariche, intense, che danno in pieno il senso della tragedia (e rendono concrete, palpabili le paure del mondo, ostaggio della guerra fredda e della minaccia atomica), è un’opera di eccezionale profondità declinata nei toni delicati di un’opera buffa; è un libro che si legge con spensieratezza, con quieta gioia, ma la cui voce, ostinata come un’eco, non si spegne. La scrittura di Vonnegut ha il tocco lieve di una carezza e il peso nobilissimo di un’eredità. È il nostro patrimonio.

Eccovi l’incipit del romanzo. Buona lettura.

Chiamatemi Jonah. I miei genitori mi chiamavano più o meno così. Mi chiamavano John. Jonah o John… se anche mi fossi chiamato Sam, sarei rimasto un Jonah – e non perché fossi un menagramo, ma perché c’era sempre qualcosa o qualcuno che mi scaraventava puntualmente in determinati posti, in determinati momenti. Non  senza i debiti mezzi e motivi, convenzionali o strambi che fossero. E, nel pieno rispetto del piano, allo scoccare del secondo stabilito, questo Jonah era lì, nel posto stabilito.

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