Recensione di “Favole” di Jean de La Fontaine
Regalare alla favola il lirismo espressivo dei versi e nello stesso tempo strapparla all’insegnamento morale che ne costituisce, fin da Esopo e Fedro, il fine dichiarato. Jean de La Fontaine, che Stendhal definì il più grande poeta di Francia, nelle sue Favole, pubblicate a partire dal 1668, sembra farsi beffe di ogni santificata tradizione letteraria, di ogni canone riconosciuto, e propone ai lettori un’opera completamente nuova, rivoluzionaria, il cui unico legame con il passato è la volontà ferma di trasfigurarlo.
Edonista ed epicureo, discepolo entusiasta di Rabelais e della sua concezione disincantata e follemente sarcastica degli uomini e della vita, e nello stesso tempo sensibile alla dottrina filosofica ed etica del giansenista Pierre Gassendi – fiero oppositore del rigoroso razionalismo cartesiano – La Fontaine, che amava descriversi attraverso il motto “la diversità è la mia divisa”, trova proprio nelle contraddizioni insanabili del suo animo inquieto l’ispirazione prima per il proprio lavoro. Nella finta ingenuità del suo comporre, nelle descrizioni a volte buffe, altre volte comiche, altre ancora tragiche, di animali, uomini, piante e cose, della natura tutta, il grande maestro francese veste i panni neutri dell’osservatore del grande spettacolo del mondo; guarda alla realtà per quella che è, la racconta così come la percepisce, nello stesso modo in cui la legge e ne fa esperienza.
Così, la crudeltà degli animali e di tutte le altre creature protagoniste delle sue storie, lungi dal farsi strumento per qualche edificante apologo, non è altro che quella che naturalmente regola i loro rapporti, è l’esatta espressione del loro essere; non c’è necessità di ingigantirla o di sottolinearne alcuni aspetti particolari per farne esempio, modello, e in tal modo illustrare al lettore qualche fondamentale verità. Splendore e orrore, dolore e gioia, entusiasmo e mestizia, viltà e coraggio sono aspetti della vita, che nel suo procedere, come un infaticabile ragno, intreccia tra loro gli opposti (gli stessi che abitano l’anima di ogni uomo); di fronte a tutto questo non c’è che una sola saggezza possibile, quella rabelaisiana, e per certi versi anche epicurea, che ci suggerisce di accettare le cose per quel che sono, cercando di godere dei piaceri che l’esistenza dispensa (seppur con eccessiva frugalità) e fuggendo per quanto possibile le sofferenze, di cui invece è prodiga.
Non è tuttavia esercizio vano, nel rapimento estetico della lettura delle Favole, andare ugualmente alla ricerca di una lezione. La leggerezza del suo linguaggio, la ricchezza delle forme espressive, il rimare giocoso, la perfezione descrittiva, le caratterizzazioni potenti e immediate, che in pochi tocchi si fanno ritratto, sono doni preziosissimi, raccontano, nell’armonioso respiro della metrica, l’arte squisita della poesia e invitano il lettore a lasciarsi conquistare dalla sua magnificenza; e se è senza dubbio vero che lo spazio (ridotto) riservato nelle Favole alle conclusioni dichiaratamente morali e la concessione all’insegnamento non sono che un omaggio, peraltro superficiale, alla grandezza degli autori greci e latini, è altrettanto innegabile che nel suo “testimoniare” La Fontaine spesso e volentieri sveste i panni del puro spettatore e dichiara senza possibilità d’equivoco il proprio favore e la propria antipatia per quel che vede e riporta. Ed ecco che le Favole si popolano di vizi – l’ipocrisia, la vanagloria, la menzogna subdola di chi è disposto a qualsiasi compromesso pur di raggiungere i propri scopi – che l’autore, come il più ispirato dei predicatori, fustiga con gioia perversa, mentre subito dopo a farsi strada è la pietà commossa verso i più deboli, gli sfortunati, gli infelici. Esiste, dunque, un orizzonte morale nelle poesie di La Fontaine; si tratta certamente di un orizzonte sfumato, che nasce da preferenze personali, dalla particolare visione della vita di un singolo. Non è qualcosa da cui si possano trarre indicazioni per una condotta di vita, e del resto non è questo l’importante. Quel che conta davvero è che gli accenti di La Fontaine brillano, oltre che per raffinatezza stilistica, anche per sincerità, per autenticità. Nelle sue creazioni il poeta non nasconde l’uomo, ed è guardando all’uomo Jean de La Fontaine, a quel che ama e disprezza, a quel che aspira e a ciò che rifiuta che impariamo a leggere e comprendere le Favole nella loro reale compiutezza.
L’ha ribloggato su l'eta' della innocenza.