Recensione di “Morte a credito” di Louis-Ferdinand Céline
Lacerante come solo la sincerità priva di compromessi sa essere. Louis-Ferdinand Céline è un romanziere che non permette equidistanza, indifferenza. La sua prosa ti trascina con sé, irresistibile come il mugghiare di acque prossime a rovesciarsi in una cascata, e ti porta ad amare incondizionatamente l’autore oppure a odiarlo senza pietà. È forse lo scrittore cui devo di più. Guardare la vita con gli occhi di Céline, misurarla con il suo metro, è un atto di coraggio, trascende la comune esperienza estetica per farsi carne e sangue.
Il tormento che scatena può far pensare alla sofferenza procurata dai riti di passaggio che in contesti tribali segnano l’ingresso nell’età adulta. Se siete pronti alla maturità, cominciate pure a leggere. Ogni romanzo è storia a sé, ma se desiderate seguire un ordine cronologico allora partite da Morte a credito (mirabilmente tradotto da Giorgio Caproni). È forse l’immagine del medico della Antologia di Spoon River, reietto e disprezzato dai colleghi perché disposto a curare i poveri (coloro che, non potendo pagare la sapienza libresca, non hanno diritto di goderne i benefici), così magistralmente tratteggiata tratteggiata da Edgar Lee Masters nella sua opera e ripresa con non comune sensibilità artistica e umana da Fabrizio De André nell’album Non al denaro, non all’amore né al cielo (E allora capii/fui costretto a capire/che fare il dottore è soltanto un mestiere/che la scienza non puoi/regalarla alla gente/se non vuoi ammalarti dell’identico male/se non vuoi che il sistema ti pigli per fame) quella che meglio si attaglia alla figura di Céline, scrittore viscerale, apocalittico e abissale, così lucidamente realista da apparire visionario, insuperato per potenza espressiva.
I romanzi di Céline (a partire proprio dal folgorante Morte a credito), tutti a carattere autobiografico, scardinano ogni santificata regola stilistica e approdano a un modo nuovo di raccontare, a una geografia di scrittura che ha il pregio unico e irripetibile di restare territorio vergine, inesplorato e sorprendente anche dopo la più avida e attenta delle letture. Con onestà sofferta, ma soprattutto con la ruvida, sincera brutalità di chi è giunto a sfiorare con le dita il volto piagato e osceno della verità, Céline violenta la dotta nobiltà della parola scritta con l’immediatezza feroce del linguaggio parlato. La sua operazione, lungi dall’essere una chirurgica lezione di stile, è in qualche modo una scelta obbligata; la sola strada che è possibile percorrere quando quel che si scrive ha la consistenza mortale della carne ed è impastato di sangue e dell’innominabile dolore inciso sui volti della gente. Uomo tra gli uomini, medico dei poveri in un sobborgo poco fuori Parigi, Céline descrive con la semplicità delle parole che prendono vita da ciò che si fa e che si è, orfane di ricordi di scuola e di tutto ciò che non è quotidiana emergenza di vivere, istintivo sottrarsi alla morte, irriducibile complessità dei giorni di ciascuno di noi.
Albe e tramonti intrisi di debolezze, meschinità, viltà, di rimpianti e di miserie, di incomprensibili vergogne e di abissi di depravazione, di nobili e segreti atti di coraggio; e tutte queste cose (il furioso accatastarsi della vita sulle spalle di ogni singolo essere umano) le traduce nella purezza ingenua e primitiva delle parole che si rincorrono per le strade, nella penombra complice dei portoni, delle case, nel roco vociare dei bistrot. Così, l’estenuata sopportazione di un’esistenza che vede ridotto il proprio orizzonte alla sola fatica necessaria al sostentamento fisico esplode in tutta la sua tragicità nella rassegnata constatazione che tutti abita ma che solo Céline esprime con il commovente coraggio dei vinti (È il nascere che non ci voleva/Il mondo sa solo ucciderti come un dormiente quando si gira, il mondo, su di te, come un dormiente uccide le sue pulci), e la profondità di una sofferenza che è tanto più vera quanto più resta nascosta riluce nell’amaro sarcasmo riservato a chi ostenta dolore per convenienza, o peggio per stupida vanità (Non credete mai a prima vista all’infelicità degli uomini. Chiedetegli se riescono ancora a dormire… Se sì, va tutto bene. Basta quello). “Esperto” d’uomini come nessun altro, Céline né è anche il cantore più vero e spietato; leggere i suoi romanzi significa abbracciare la laica pietà di cui sono intessuti, immergersi con il cuore e le viscere nell’anima sfregiata di chi ha cercato per tutta la vita, senza mai trovarla, una ragione per amare il suo prossimo.
Eccovi l’incipit. Buona lettura.
Eccoci qui, ancora soli. C’è un’inerzia, in tutto questo, una pesantezza, una tristezza… Fra poco sarò vecchio. E la sarà finita, una buona volta.