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Una frattura nella terra

Recensione di “Patria” di Fernando Aramburu

Fernando Aramburu, Patria, Guanda

Della terra in cui nasci può essere la sostanza dell’amore incontaminato che provi per i tuoi figli; dei suoi colori, della sua bellezza, di ogni sua imperfezione può vestirsi il tuo carattere, della sua luce illuminarsi le tue emozioni; e nella tenebra delle sue notti può perdersi la tua anima. Dalla terra in cui nasci puoi ereditare tutto o niente; le puoi somigliare nella cocciutaggine come nell’arrendevolezza, nell’esuberanza come nel bisogno costante d’amore e d’attenzione, nella solitudine invincibile come nella gioia più sfrenata.


Ai luoghi che ti hanno visto crescere, farti uomo e padre, divenire donna e madre, puoi legarti d’un affetto semplice e forte, che accetta benevolo senza pretendere, che non esige e si accontenta; ma con essi puoi anche stringere un patto di sangue, sacrificando per intero te stesso, facendo tue, sulla pelle, nel cuore e nella testa, le sue sofferenze, patendo nelle tue carni le ingiustizie cui è sottoposta, raccogliendo, nella tua disordinata manciata d’anni, i polverosi e maledetti secoli della sua storia. Che sia l’una scelta o l’altra a decidere della vita che vivrai, sarà comunque la tua terra, la tua patria, a lasciarti addosso le cicatrici più profonde, a nutrirti nell’odio, battezzarti nel dolore per poi consumarti, giorno dopo giorno, nel rimorso, nel bisogno di perdonare ed essere perdonato. Patria, lacerante, splendido romanzo di Fernando Aramburu, mette al centro proprio la terra, la terra insanguinata e afflitta dei Paesi Baschi, la terra ostaggio della lotta armata dell’Eta, sfregiata da un conflitto fratricida che oppone i nazionalisti agli “spagnoli”, guardati come nemici e come tali trattati, disprezzati in quanto stranieri perché ignoranti della lingua madre (l’euskera, la lingua della libertà, dell’indipendenza a ogni costo, la lingua di chi è disposto a uccidere anche il proprio fratello perché il sogno si realizzi), perché incapaci di comprendere le ragioni della lotta (che per loro non è altro che spregevole terrorismo), perché solidali, nel loro sdegnoso silenzio, con tutti coloro che all’Eta e ai suoi metodi si oppongono. E in questa terra, in un paesino vicino a San Sabastián, lo scrittore spagnolo ambienta un dramma corale che si svolge nell’arco di trent’anni, la storia tragica di due famiglie (nella quale si specchia quella di un’intera nazione) divise, o per meglio dire distrutte, da una guerra che in realtà non appartiene a nessuno, che è soltanto un osceno teatro di burattini.

Muovendosi senza sosta avanti e indietro negli anni rispetto a un punto centrale (un omicidio, un delitto politico, una sentenza), Aramburu racconta l’odissea di due famiglie legatissime tra loro corrose dal veleno ideologico del terrorismo; la sua prosa, così scandalosamente “a misura d’uomo”, mette in luce come meglio non si potrebbe l’assoluta assenza di umanità di chi “conduce i giochi”, di coloro che nascondono dietro la retorica la propria immensa vigliaccheria; egli disegna personaggi indimenticabili (i membri delle due famiglie travolte dal fatto di sangue, a partire dal Txato, uomo semplice e imprenditore di successo, che paga con la vita la sua decisione di non sottomettersi ai ricatti dell’Eta, di non piegarsi alla scandalosa richiesta di denaro, necessario a finanziare “il percorso rivoluzionario” dei guerrieri baschi; per proseguire con la fiera moglie Bittori, e con i fgli Xabier, medico che, alla morte del padre, decide di rinunciare a ogni possibile felicità personale, ritenendo di non meritarla, di non esserne degno, e Nerea, che invece, malgrado cerchi in tutti i modi di superare il lutto, finisce sconfitta dal trauma; e ancora i rivali, Miren, un tempo la più cara amica di Bittori e oggi madre orgogliosa di Joxe Mari, terrorista dell’Eta che forse, tra i tanti omicidi commessi ha sulla coscienza anche quello del Txato, un tempo tanto vicino a lui da esserne il patrigno, il marito Joxian, pacifico, timido, così debole da non riuscire a dare la sua solidarietà all’amico fraterno Txato nel momento in cui l’Eta decide di fargli terra bruciata intorno, e gli altri due figli Arantxa, coraggiosa e sfortunata, e Gorka, amante dei libri e della sua lingua natia e prigioniero di un odio che non prova e non vuole provare), scava nei loro cuori, ne esplora i pensieri, ne mette a nudo le fragilità, ne percorre le contraddizioni, ne sottolinea gli sbagli. E così facendo lascia che a emergere sia la sola risposta possibile alla violenza cieca e brutale, alla logica spietata dell’annientamento: la nobiltà ordinaria e preziosa dei padri e delle madri e il cristallino affetto dei figli, l’operosità sincera del lavoro, il lento inseguire un senso che è il cammino di coloro che vivono.

Forte di una scrittura meravigliosa e di rara incisività, Patria è una riflessione potente su quanto, in ogni momento, rapiti da un canto di sirena, rischiamo di perdere di noi stessi. È un’opera che ha il respiro di un classico.

Eccovi l’incipit. La traduzione, per Guanda, è di Bruno Arpaia. Buona lettura.

Eccola lì, la poverina. Va a infrangersi su di lui. Come s’infrange un’onda sugli scogli. Un po’ di schiuma e ciao.

4 commenti su “Una frattura nella terra”

  1. Più volte mi è venuta la tentazione di leggere questo grande libro.
    Ma poi desistevo.
    Certo che dopo aver letto il tuo post mi viene una grande voglia.
    Ti devo proprio fare i complimenti.
    Raramente leggo recensioni scritte con tanta cura e attenzione sua della terminologia sia in tutti gli aspetti che accompagnano un libro.
    Anche del traduttore, mi ha fatto particolarmente piacere.

      1. Grazie, credo proprio che lo prenderò.
        Mi sono ripromessa di attendere a fare acquisti libreschi, ho troppi libri ancora da lo. Ma tanto so che non terrò Fede ai buoni propositi, come sempre…

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