Vai al contenuto
Home » Recensioni » Storico » Cronaca, romanzo, atto d’amore

Cronaca, romanzo, atto d’amore

Recensione di “Il Messico insorge” di John Reed

John Reed, Il Messico insorge, Einaudi

“Francisco I. Madero rovesciò la dittatura del generale Porfirio Díaz senza troppa fatica, dopo una tempestosa campagna elettorale e un breve movimento armato, tra il novembre 1910 e il maggio 1911 […]. Madero, figlio di ricchi proprietari terrieri, era un uomo buono e generoso, ma gli mancava la capacità di cogliere gli immensi problemi politici e sociali creati dalla lunga dittatura di Díaz. Giunto alla presidenza grazie a un voto popolare plebiscitario entusiasta, la sua prima mossa fu di abbandonare quelle stesse masse che gli avevano dato il potere […].


Il 27 novembre 1911 il leader contadino Emiliano Zapata insorse contro il governo Madero […]. Pochi mesi dopo, gli allevatori e i latifondisti reazionari dello stato settentrionale del Chihuahua finanziavano uno dei più prestigiosi ‘capi della rivoluzione’, Pascual Orozco. Questi raccolse un esercito e marciò verso sud, verso la capitale, con l’intenzione di restaurare al potere il governo reazionario; ma lungo la strada fu fermato e sconfitto da Victoriano Huerta, un ex generale porfirista […]. All’alba del 9 febbraio 1913 una comune ribellione militare […] si propagò a diverse guarnigioni […]. A schiacciare la rivolta il presidente Madero inviò il generale Huerta […]. Improvvisamente, il 19, Huerta prese aperta posizione contro il governo Madero, e in una drammatica scena al Palazzo Nazionale arrestò Madero e lo costrinse a dimettersi. Il 22 […] Huerta fece assassinare Madero […]. Un mese dopo l’assassinio del presidente Madero, comparvero, sulle strade di campagna, forti gruppi a cavallo di quegli stessi guerriglieri che avevano portato al potere Madero, e che egli aveva miopemente congedato e disciolto. Uno di essi , Francisco Villa – che rimarrà per sempre nella storia col nome di Pancho Villa – era stato smobilitato da Madero, e poi incarcerato per gli intrighi del generale Huerta […]. Con l’aiuto di Carlos Jaúregui, un giovane impiegato del tribunale militare, Villa evase dal carcere di Santiago Tlatelolco, e il 26 dicembre 1912 giunse negli Stati Uniti. Jaúregui, oggi settantenne colonnello in pensione ricorda: ‘Eravamo al El Paso, nel Texas, e ci preparavamo a tornare in Messico dopo aver saputo dell’assassinio di Madero. Era il 6 marzo 1913, poco dopo le dieci di una notte buia […]. Attraversammo il fiume a cavallo, e ben presto fummo accolti dalla prima salva di proiettili. Erravamo in otto, guidati da Villa’. Quegli otto uomini, capeggiati da Villa, furono la scintilla e l’origine della famosa Divisione del Nord […]. Pochi mesi dopo, nel gennaio 1914, Villa trasferì il suo quartier generale nella città di Chihuahua, capitale dello stato. Fu in quei giorni che vidi, nell’ufficio telegrafico dove lavoravo, un giovane giornalista yankee. Ci venne cinque o sei volte, a Ciudad Juárez o a Chihuahua. Era alto, magro, biondo, col naso all’insù”.

Datate settembre 1968, queste brevi memorie di Renato Leduc fanno da introduzione a Il Messico insorge, cronaca della vittoriosa rivoluzione costituzionalista condotta da Villa scritta con intensa partecipazione, dichiarata partigianeria (verso i ribelli) e incontestabile rigore dal giornalista John Reed, che divenne celebre narrando gli eventi della Rivoluzione d’Ottobre nel volume Dieci giorni che sconvolsero il mondo.

Dalle immense, spaventose contraddizioni della terra messicana, Reed sembra lasciarsi immediatamente conquistare; testimone oculare della guerra, e soprattutto di tutto ciò che le sta attorno, di tutto quel che vive e soffre quando sono le armi a tacere, quando non sono gli opposti eserciti a scontrarsi, egli narra con limpida sincerità; la sua “prima linea” non è soltanto quella delle trincee e degli assedi, dei massacri e delle esecuzioni sommarie dei prigionieri, ma la ben più feroce miseria quotidiana dei peones, il popolo di Villa che sogna terra e pane, e un futuro in cui non ci saranno più eserciti perché ognuno avrà di che nutrirsi, e non sarà più costretto a sollevarsi in armi e a mettere in gioco la propria vita per ottenere ciò che dovrebbe spettargli di diritto.

Le pagine di Reed, giornalisticamente accuratissime, quasi sbiadiscono di fronte all’umana ricchezza della sua prosa, alla cristallina gioia che lo fa cantare e ballare insieme al popolo che non ha nulla e che tuttavia non cessa di essere prodigo, all’entusiastico stupore per il “carattere” dei messicani, pronti tanto a uccidersi l’un l’altro per un nonnulla quanto ad amarsi come fratelli per tutta la vita in seguito a nient’altro che a una fortuito capriccio del caso. Uomo tra gli uomini e soldato tra i soldati, Reed non nasconde ma anzi esalta a più riprese la sua ammirazione per Villa (alla cui figura dedica l’intera seconda parte del suo libro, diviso in sei sezioni) e attraverso quest’uomo che al Messico e alla sua libertà e prosperità ha dedicato tutto se stesso, egli racconta il Paese, le sue debolezze e soprattutto la sua straripante nobiltà.

Il Messico insorge è a tutti gli effetti un romanzo, un bellissimo romanzo, appassionato, lirico, in diversi tratti divertente, perfino spassoso, e insieme è un documento giornalistico di indubbio valore. Ma ancor più di questo, il libro di John Reed è un atto d’amore, una struggente ballata non dissimile, nella sua pallida bellezza, da quelle canzoni estemporanee che sempre accompagnano i penosi sacrifici degli ultimi, e che essi custodiscono nelle loro anime e nei loro cuori come il più prezioso dei tesori.

Eccovi l’incipit. La traduzione, per Einaudi, è di Enrico Basaglia. Buona lettura.

L’esercito federale di Mercado dopo la drammatica e terribile ritirata attraverso quattrocento miglia di deserto che seguì l’abbandono di Chihuahua, si trattenne per tre mesi a Ojinaga, sul Rio Grande.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *