Recensione di “La rivoluzione dei tarli” di Lucia Grassiccia
Un paese come tanti, che soffoca nella calura e guarda il mare. Un paese che è una cosa sola con coloro che ci vivono e che tuttavia resta distante, in qualche caso addirittura misterioso, le cui strade strette nessuno sa esattamente dove conducano, neppure chi abita lì da una vita intera, e ai cui angoli è facile imbattersi in un cane randagio.
Un paese in cui il sonno, e tutto ciò che lo popola, è più importante della veglia, e dove le parole, quelle scambiate con apparente noncuranza al tavolo di un bar, contano più delle azioni. È in questo paese, un paese del Mezzogiorno d’Italia che ha nome Scanto, che Lucia Grassiccia ambienta La rivoluzione dei tarli, romanzo che segue il suo più che riuscito lavoro d’esordio, Elevator. In questa sua nuova fatica letteraria, dedicata alla coppia di registi e sceneggiatori Daniele Ciprì e Franco Maresco, la giovane autrice siciliana prova a misurarsi con una storia priva di confini ben definiti, dove a mescolarsi sono i sentimenti (l’amore soprattutto) e la semplicità del vivere quotidiano, ciò che è ordinario, quasi meschino, e che non offre spunti di sorta all’artistica fatica del narrare, e l’interiore tumultuare dei cuori e delle anime, che non conosce requie e non trova approdi. Protagonista dell’opera di Lucia Grassiccia è una famiglia di Scanto, un nucleo tanto numeroso quanto poco coeso, la cui natura liquida riverbera nelle esistenze dei singoli, ciascuno perduto, o forse imprigionato, in un proprio mondo costruito su misura.
Sempre sospesa tra tragico e grottesco, la scrittura di Grassiccia si avvicina al reale con una sorta di cautela, con animalesca diffidenza, e al respiro del paese, alla sua sonnolenza, alla sua eternità fanciullesca, che altro non è se non assenza di cambiamento, oppone l’originalità dei personaggi che la abitano, da quella del Passante Solitario, soprannominato così perché incapace di restare fermo in un luogo (qualsiasi luogo, a partire da casa sua) per più di qualche minuto, a Lui Sebastiano, che nel nome porta tanto il ricordo del fratello maggiore (Sebastiano), morto poco dopo la nascita, quanto la distinzione da quella tragedia che spinge chiunque parli di lui a premettere al nome proprio il pronome lui, a sottolineare che del vivo si tratta, e non dello scomparso, pronome che con il tempo diviene Lui, con la Elle maiuscola, cioè a tutti gli effetti il completamento del nome di Sebastiano, ciò che è indispensabile per non confonderlo con l’altro Sebastiano, quello che tutti ricordano ma che Scanto non ha mai veduto né mai vedrà, a Gleb, il capofamiglia, che una volta a settimana raccoglie, scrivendoli su taccuini che gelosamente conserva, i sogni dei suoi sette figli, e ancora alla coppia di amici Mike ed Ettore, che trascorrono il loro tempo seduti al tavolo dell’unico bar di quel posto (o se non dell’unico, di quello più noto) a discorrere di tutto e di nulla: “Ettore e Mike sanno nome, cognome e trascorsi di qualunque persona calpesti il marciapiede, in parte sbriciolato, davanti al Barbarossa (che ha nell’insegna la seconda b fulminata e da lontano si legge bararossa) […]. Ettore e Mike, cui ci si può riferire anche parlando di Mike ed Ettore, somigliano rispettivamente a una figura e a una figura riflessa”.
In questo piccolo mondo che è anche, se non soprattutto, una forma di teatro dell’assurdo, si trascina la relazione tra Peppe l’arabo, uno dei figli di Gleb, e Bianca, sposi per convenienza, per interesse, e genitori per caso, incapaci sia di gestire quello stesso interesse che li ha uniti (e che i sentimenti, giunti inaspettati, hanno spezzato) sia di ricostruire loro stessi all’indomani della separazione e del divorzio, e parallelamente langue, impedito da incidenti a catena, il più grande desiderio di Gleb, quello di unire a tavola, per una cena indimenticabile, tutta la sua famiglia e gli amici più cari. E quando finalmente ogni ostacolo sembra superato e la tanto sospirata riunione può avere luogo, ecco che a scardinare l’equilibrio così faticosamente raggiunto è il più inaspettato dei rovesci: la rivolta stessa di Scanto, o forse di coloro che soli a buon diritto possono considerarsi a pieno titolo abitanti di quel luogo: gli animali randagi. E quel che resta, dopo tutto questo, è soltanto la vita; una vita che lì, nonostante gli sforzi, è destinata ad arrivare in ritardo.
Eccovi l’incipit. Buona lettura.
A Scanto esiste una scansione precisa delle età della vita, ma non puntuale. A Scanto la vita arriva in ritardo. Le guance di ogni bambino, però, si gonfiano senza riserve nell’essere infante e l’adolescente ospita in tutti gli sguardi l’impazienza, per non dire di quanto la ruga affondi nel vecchio.