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“Non c’è felicità nell’amore tranne che alla fine di un romanzo inglese”

Recensione di “La trama del matrimonio” di Jeffrey Eugenides

Jeffrey Eugenides, La trama del matrimonio, Mondadori

Se l’arte è vita, se fra loro c’è piena coincidenza, se letteratura e musica, disegno, scultura, studio persino (inteso come tensione verso ciò che non si conosce e si cerca di comprendere, dunque di possedere) sono vita, la vita e non una semplice parte di essa quale spazio abita l’atto creativo? Come lo si distingue da tutto il resto? Che significato hanno le cose che da quello slancio prendono vita? Qual è l’esperienza vera, autentica che permette di separare ciò che si incontra grazie alla mediazione del gesto artistico da quel che si prova davvero?


E dove si colloca? In cosa sono differenti una scena d’amore e un atto d’amore? Per quale ragione dovrebbe avere più slancio una cosa detta di una cosa scritta o dipinta? Per Madeleine Hanna, laureanda in letteratura per la più semplice delle ragioni, “perché amava leggere”, protagonista del bel romanzo di Jeffrey Eugenides La trama del matrimonio, tutte queste domande, che avrebbero potuto far parte della sua tesi, essere discusse in una più ampia analisi sul romanzo vittoriano (la sua grande passione) si fanno travolgente (e sconvolgente) realtà nel momento in cui conosce Leonard Bankhead a un corso di semiotica, materia cui decide di avvicinarsi non perché attratta ma per il motivo esattamente opposto; per il fatto che sembra essere l’unica, nella sua università, a non subire il fascino di quella disciplina rivoluzionaria, il cui compito sembra essere svuotare di significato tutto ciò che per Madeleine ha un senso ben preciso: le storie che i romanzi raccontano. Leonard è un ragazzo esageratamente brillante; dalla sua ha un’intelligenza non comune, un eloquio raffinato e una notevole avvenenza; è uno scienziato (o vorrebbe esserlo), e come se non bastasse è perfettamente a suo agio con la semiotica, proprio come Madeleine lo è con le trame di Jane Austen. Inevitabile, dunque, che lei si senta attratta da quel giovane, fino a innamorarsene. Quel che Madeleine ignora, però, quel che la letteratura non le ha mai detto, è che Leonard è malato, soffre di acute crisi maniaco-depressive, ed è con queste esplosioni di follia (che comprendono, tra le molte manifestazioni, iperattivismo, apatia, drastico calo del desiderio sessuale, picchi di sfrenata attività sessuale, cambiamenti nel ritmo sonno-veglia, irrequietezza, mutismo, logorrea, trascuratezza nella cura di sé e naturalmente pensieri di morte, che possono da un momento all’altro tramutarsi in azioni concrete) che lei deve vedersela, dapprima in una relazione in apparenza uguale a milioni di altre e poi, al termine di un periodo terribile, dal quale Leonard riesce a uscire (seppur solo temporaneamente) grazie a un azzardo tanto geniale quanto pericoloso, quando decide di accettare la sua proposta di matrimonio.

Ma non solo per Madeleine l’unicum arte-vita si rivela un mistero privo di soluzione, anche per il suo amico Mitchell Grammaticus (che della ragazza è perdutamente innamorato) quella prospettiva somiglia a un vicolo cieco. Anche Mitchell è un giovane di grandi capacità; interessato alla storia delle religioni, egli cerca ossessivamente il punto di contatto tra sé e coloro che, scrivendo di Dio e di tutto ciò che Dio significa (o dovrebbe significare) forse sono stati in grado di tracciare un percorso che è possibile seguire. Ma se Mitchell, senza avere il coraggio di ammetterlo per primo a se stesso, si getta alla ricerca di Dio (arrivando fino in India, nella Calcutta di Madre Teresa) per allontanarsi da un sogno impossibile che si chiama Madeleine, le tracce di quale autore, di quale mistico, sta seguendo? Forse le sorprendenti, inaspettate impronte letterarie di Anthony Trollope, secondo cui, ci ricorda l’autore di Le vergini suicide (se vi interessa la recensione, la trovate qui) e dello splendido, indimenticabile Middlesex (recensito qui), “Non c’è felicità nell’amore tranne che alla fine di un romanzo inglese”.

Così Eugenides, attraverso una scrittura elegante e ricchissima che muove al riso, alla commozione, fa riflettere, e insistentemente gioca con una messe di citazioni letterarie tra le quali il lettore può tanto trovarsi meravigliosamente a proprio agio quanto rischiare la vertigine, proprio di quella fuggevole ombra di felicità parla; un’illusione, o forse una realtà (preziosa in virtù della sua eccezionale rarità), che i suoi personaggi non si stancano di braccare, ciascuno in cuor suo sognando di trovarla proprio lì dov’era convinto di averla lasciata un attimo fa, o il giorno prima, o soltanto qualche ora addietro: nell’ultima pagina di un romanzo letto d’un fiato.

Eccovi l’incipit. La traduzione, per Mondadori, è di Katia Bagnoli. Buona lettura.

Guardiamo i libri, per cominciare. C’erano i romanzi di Edith Wharton, allineati sullo scaffale non in ordine alfabetico per titolo ma per anno di pubblicazione; c’era l’opera completa di Henry James della Modern Library, regalo del padre per il suo ventunesimo compleanno; c’erano i testi con le orecchie alle pagine usati per gli esami, molto Dickens, un assaggio di Trollope, dosi generose di Jane Austen e George Eliot e delle formidabili Brontë. 

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