Recensione di “La festa del Caprone” di Mario Vargas Llosa
Dove ogni cosa appartiene a Rafael Leónidas Trujillo le persone non fanno eccezione. Non possono farla. Dove la vita politica si riassume in una dittatura feroce, in un capo osannato, idolatrato ma soprattutto temuto, il cui potere di vita e morte sui sudditi-cittadini tutti è paragonabile a quello di una capricciosa divinità, non può esserci spazio per lotte politiche, battaglie istituzionali. Dove impera un tiranno non può esistere altro che il respiro clandestino della ribellione.
Una ribellione che cova silente per tre decenni e infine esplode in un attentato pianificato nei minimi dettagli; in un inseguimento lungo la strada che dalla capitale – Santo Domingo, ribattezzata, in onore del signore assoluto dell’isola, in Ciudad Trujillo – porta alla casa di piacere più amata dal leader, quella dove lo attendono le donne che egli ha scelto e che dovranno regalargli ore di divertimento e di riposo facendogli dimenticare ogni preoccupazione, ogni amarezza; in un affiancamento a folle velocità dell’auto presidenziale e infine nell’azione di un gruppo di fuoco scelto, incaricato di crivellare di colpi la macchina di Trujillo e di giustiziare tutti i suoi occupanti, a partire dall’odiato despota. È il 1961, il trentunesimo anno dell’Era. Il trentunesimo e ultimo. Prende le mosse da qui, da questa pagina di storia La festa del Caprone dello scrittore Premio Nobel Mario Vargas Llosa, che nel narrare la tragica parentesi vissuta dalla Repubblica Domenicana, ostaggio di un regime fondato su un anticomunismo febbrile e allucinato e su un culto della personalità ancor più folle ed estremo, nutrito di violenza e persecuzione, mescola alla realtà del passato ricostruito in pagine densissime un presente inventato cui spetta l’onore di dare un giudizio morale, etico sull’uomo Trujillo, sul capo di Stato Trujillo, sulle sue azioni e su quelle di tutti coloro che l’hanno seguito e quelle azioni hanno avallato, favorito, promosso (o semplicemente non ostacolato).
A incarnare questo presente che si fa tribunale della storia e che rende Trujillo imputato allo stesso modo in cui lo sono stati i gerarchi nazisti a Norimberga e il boia timido Eichmann a Gerusalemme, è Urania Cabral, figlia di un alto papavero del regime del “Chivo” Trujillo, il senatore Agustín Cabral, soprannominato Cerebrito per la sua non comune intelligenza politica; Urania, fuggita da Santo Domingo in giovanissima età, torna nella sua terra natia trentacinque anni dopo e, in un Paese ormai liberato, ricorda. Ricorda il perché del suo allontanamento improvviso, la ragione del suo odio inestinguibile verso il padre, e a questa sua memoria Vargas Llosa intreccia il “passato prossimo” dei carbonari ormai pronti a togliere la vita al “Benefattore della Patria” e i pensieri dello stesso Trujillo, che nell’analizzare i suoi anni al potere non fa che giustificarsi, assolversi, rivendicare.
La scrittura di Vargas Llosa non lascia spazio all’eleganza, rifiuta il ricorso all’estetismo fine a se stesso per “sporcarsi” con la concretezza, spesso oscena, dell’argomento scelto, per provare a essere ciò di cui parla; così, riluce di calcolata malvagità e di ipocrisia studiata negli scambi dialogici, ribolle d’ira, impotenza e vergogna nelle riflessioni degli oppositori divenuti loro malgrado assassini, traditori, si gonfia di cieco orgoglio nel ruvido sentenziare del Jefe, il cui fiato è legge, e infine erutta nell’indignazione di Urania, il cui ostinato silenzio di una vita intera scioglie le catene e si fa insieme confessione e condanna in un racconto-fiume, simbolo di tutto ciò che le dittature, in ogni angolo del mondo sono: odiosa sopraffazione dell’uomo sull’uomo. Una sopraffazione che non si chiude con l’eliminazione di Trujillo ma che anzi, all’indomani dell’attentato, si fa ancora più terribile organizzando senza sosta rastrellamenti, deportazioni, torture inimmaginabili nel loro orrore. Tuttavia, in questo suo dimenarsi di belva ferita, l’Era, poco alla volta, con esasperante lentezza, si consuma, cede, si arrende. E resta lì, nel passato, ad attendere che qualcuno racconti ciò che è stata, ciò che è stata davvero, affinché nessuno dimentichi, affinché quante più persone possibili imparino. O abbiano almeno la possibilità di farlo.
Eccovi l’incipit del romanzo. La traduzione, per Einaudi, è di Glauco Felici. Buona lettura.
Urania. I genitori non le avevano fatto un favore; dava l’idea di un pianeta, di un minerale, di tutto tranne che della donna snella e dai tratti sottili, dalla carnagione bruna e dai grandi occhi scuri, un po’ tristi, che lo specchio le rimandava.
Un libro bellissimo, travolgente, appassionante e sconvolgente. Uno di quei romanzi che non smetteresti mai di leggere e alla cui lettura non vedi l’ora di tornare.
Sono d’accordo. Ti ringrazio del commento e spero vorrai continuare a seguire il blog.
Un saluto
Paolo