Recensione di “Orlando” di Virginia Woolf
Allo scoccare della mezzanotte di giovedì 11 ottobre 1928, Orlando, che in soli vent’anni di vita, una vita diversa da qualsiasi altra, ha attraversato, dapprima nel sembiante maschile e poi in quello femminile, 350 anni di storia, esala l’ultimo respiro.
Creatura perfetta e indefinibile (o forse perfetta proprio perché essenzialmente indefinibile), multiforme spirito di un tempo distante tanto dall’ultraterrena eternità quanto dalla comune esperienza del suo inesorabile trascorrere, e la cui verità e presenza, la cui realtà abita nell’impalpabile e folgorante epifania di un’intuizione, nello scarto improvviso di una presa di coscienza, nel rapimento di un’emozione, Orlando è nello stesso momento il soggetto-oggetto di un’accuratissima biografia, l’amante scandalosamente impetuoso protagonista di un romanzo d’appendice, l’eroe eponimo di un poema avventuroso, il letterato nutrito e consumato dalla propria vocazione e l’incantato esploratore di quel paese delle meraviglie che si cela dietro l’angolo della strada di casa.
Raccontato nei toni incandescenti e fiabeschi di un mistero iniziatico, esaltato da una prosa florida, immaginifica, capace di far emergere un mondo intero da un singolo dettaglio – “Sospirò profondamente e si gettò […] sulla terra al piede della quercia. Amava sentire, sotto l’effimera apparenza dell’estate, la spina dorsale della terra sotto di sé; perché tale era per lui la dura radice della quercia; oppure – nella catena delle immagini – era il dorso di un gran destriero che cavalcava; o la tolda di una nave beccheggiante; qualunque cosa, insomma, di solido, perché sentiva il bisogno di ormeggiare il suo cuore fluttuante” – Orlando è l’insolubile enigma attorno al quale Virginia Woolf costruisce uno dei suoi lavori più affascinanti, coinvolgenti e ispirati.
Che sia biografia (fittizia, va da sé), trionfale (nonché sarcastico) omaggio ai fasti del romanzo ottocentesco, esperimento metaletterario, raffinato esercizio di stile, o tutte queste cose insieme, di volta in volta declinate come aspetti di un carattere, profili differenti di un unico primo attore, sfumature d’ombra, battiti di ciglia di un solo volto, Orlando, prima di ogni altra cosa, è sovrabbondanza stilistica e parallela profondità tematica. Voltate le spalle al rigore dell’architettura narrativa di capolavori come Gita al faro (recensito qui), dove a dominare erano la pressoché totale assenza di intreccio e le unità aristoteliche di tempo, luogo e azione, considerate fondamento stesso del raccontare, la scrittrice britannica lascia campo libero a un’esaltante ricchezza descrittiva, a pagine colme di vita e bellezza, all’accecante splendore delle metafore, alla sottile arguzia dei dialoghi, al tormento del dubbio, alla temerarietà dell’indagine filosofica, alle insidie per mente e cuore che la poesia nasconde nella musicale amabilità dei versi – “Era l’epoca elisabettiana; la loro morale non era la nostra; né i loro poeti, né il loro clima; neanche i loro legami […]. Delle nostre penombre indistinte, dei nostri crepuscoli languidi non sapevano nulla. La pioggia cadeva violenta, o non cadeva affatto. Il sole divampava, o regnava il buio. Traslando tutto questo nelle regioni spirituali, com’è loro abitudine, i poeti cantavano splendidamente il morire delle cose e il cadere dei petali. L’attimo è breve, cantavano; l’attimo è fuggito; tutti ci attende il sonno di una lunga notte”.
E tutto questo l’autrice magistralmente racchiude nei confini di una trama ben definita, la cui solidità, tuttavia, a ogni istante rischia di svanire nel canto di sirena dell’immaginazione, di perder se stessa nei labirinti del possibile, di tramutarsi nel proprio opposto lungo i morbidi sentieri della fantasia e del sogno.
Non sorprende dunque, bensì seduce, e conquista, osservare come il palcoscenico della vita d’Orlando, dapprima giovane prediletto dalla regina Elisabetta, in seguito ambasciatore a Costantinopoli, poi donna libera e selvaggia tra gli zingari e infine poetessa affermata, sposa di un suo doppio maschile (il cavaliere Marmaduke Bonthrop Shelmerdine Esquire, la cui esistenza è consacrata a un solo scopo: doppiare Capo Horn in piena tempesta) e finalmente anche madre, radicato nel passare degli anni, nell’accendersi ed esaurirsi di amori e amicizie e nella speculazione, nell’analisi sulle verità ultime, pur restando fedele a se stesso scivoli nel reame fantastico del sorprendente, dell’inconsueto, e qui, in qualche inesplicabile maniera, risorga.
Qui, dove secoli scorrono nel breve volgere di un’ora e un gelo improvviso, che ha il potere di offrire un illusorio elisir di lunga vita a una nazione intera, d’un tratto svanisce, travolto da un diluvio di pioggia, lasciando dietro di sé mestizia e morte; qui, dove l’identità sessuale, e con essa i ruoli che l’uomo e la donna rivestono in società, è un confine labile che un capriccio (o il desiderio di sapere se sia più sublime esistere e patire come maschio o femmina) può agevolmente superare; qui, dove l’amore per le belle lettere è mortale debolezza dell’anima (“Perché una volta che il male di leggere si è impadronito dell’organismo, lo indebolisce tanto da farne facile preda dell’altro flagello, che si annida nel calamaio e che suppura nella penna. Lo sventurato comincia a scrivere. E se questo è già un male per il povero […] è davvero pietoso lo stato del ricco, che ha case e bestiame, cameriere, asini e biancheria, eppure scrive dei libri. Il sapore di tutti quei beni gli diventa estraneo […]. Darebbe fino all’ultimo soldo (tanto quel germe è maligno!) pur di scrivere un libretto che gli desse fama; eppure tutto l’oro del Perù non gli servirebbe a comprargli il tesoro di un verso ben tornito”) e i libri bramano così febbrilmente d’esser letti da vivere di vita propria. Qui, dove l’oggi ha “un che di definito e netto” che ricorda il diciottesimo secolo e rassicura, non fosse per quel “di più di follia, di disperazione…”.
Opera magnifica e preziosa, luccicante giostra d’ilarità e cupezza, gioco ozioso, bizzarro e geniale e ricerca inesausta, Orlando è un gioiello letterario di rara qualità. Non perdete l’occasione di leggerlo.
Eccovi l’incipit. La traduzione, per Mondadori, è di Alessandra Scalero. Buona lettura.
Egli – poiché non c’era dubbio sul suo sesso, sebbene la moda del tempo lo dissimulasse alquanto – stava prendendo a piattonate la testa di un moro, che dondolava appesa alle travi. Aveva il colore di una vecchia palla di cuoio, e anche la forma approssimativa, tranne per le guance incavate e per una ciocca di capelli duri e aridi come peli d’una noce di cocco.