Recensione di “Oliver Twist” di Charles Dickens
Un paradosso non dissimile da quello zenoniano di Achille e la tartaruga, che vede il grande eroe incapace di raggiungere la lentissima testuggine, a patto che l’animale parta con un leggero vantaggio e che il percorso da compiere sia infinitamente divisibile, si applica a Charles Dickens e alla sua opera.
Impareggiabile creatore di personaggi (non v’è infatti chi non conosca gli eroi dei suoi romanzi, a partire dal cinico Ebenezer Scrooge salvato dallo spirito del Natale, ma l’elenco è davvero molto lungo), lo scrittore è tanto noto e apprezzato per questa sua capacità, quanto trascurato per il resto del suo lavoro, dal momento che di molti dei suoi romanzi non si conosce se non un abbozzo di trama, il più delle volte ridotta all’insieme delle vicissitudini che capitano al protagonista. Chi, per esempio, può dire di non aver mai sentito nominare Oliver Twist? Nessuno, naturalmente, perché il povero Oliver Twist personaggio è talmente famoso da essere diventato, e non da oggi, sinonimo di una ben precisa figura, quella dell’orfano dal cuore puro bersagliato dalla sfortuna ma capace di non arrendersi mai, malgrado la frequenza dei rovesci che i suoi giovani anni sono costretti a sopportare.
Ma al di là delle disavventure di questo bambino, quanti davvero sanno cosa contiene il romanzo intitolato Oliver Twist (il secondo scritto da questo magnifico autore dopo il folgorante esordio de Il circolo Pickwick, la cui recensione trovate qui)? Quanti si sono lasciati avvincere da quelle pagine, hanno amaramente sorriso gustandosi la puntuta ironia della prosa, i perfetti ritratti dell’umana ipocrisia – incarnati nei caratteri pieni di falsità e ignoranza del custode parrocchiale Bumble e della direttrice dell’ospizio di carità, che in realtà ha poco o nulla di caritatevole, signora Corney – della viltà interessata e dell’opportunismo (di cui è campione indiscusso un personaggio di secondo piano come il garzone di bottega Noah Claypole), si sono immersi nel sordido mondo criminale della Londra di primo Ottocento, governato sia dall’insinuante, calcolato, furbo e spietatamente freddo machiavellismo dell’ebreo Fagin, ricettatore, lenone, ricattatore, burattinaio di un manipolo di giovanissimi borseggiatori, sia dalla forza bruta e dall’arroganza del bandito Sikes, si sono emozionati e commossi di fronte alla generosità e alla purezza di cuore di coloro che hanno lottato per Oliver (il signor Brownlow, la signora Maylie, il dottor Losberne), hanno esplorato sgomenti gli abissi di crudeltà in cui può sprofondare un’anima (quella del misterioso Monks) consumata dall’odio e dal risentimento e accarezzato la dolorosa bellezza del pentimento, disperandosi per una salvezza soltanto sfiorata (quella di Nancy, donna perduta, vittima non innocente ma neppure interamente colpevole di circostanze avverse, di un contesto sociale che Dickens non si stanca di denunciare)?
E ancora, quanti, abbandonandosi alla seduzione di questo romanzo, hanno apprezzato come merita il puro talento di romanziere di Dickens, la sua capacità di costruire intrecci complessi dove il colpo di scena è sempre dietro l’angolo, dove nulla è ciò che sembra, dove tutto può cambiare in un istante, dove, in una parola, vibra l’imprevedibilità della vita? Domande tutte, queste, che altro non vogliono essere se non un invito a riprendere (nei casi più fortunati) o a incontrare davvero uno scrittore che ha donato al mondo autentici capolavori letterari, classici senza tempo, e nel caso specifico di Oliver Twist qualcosa di assolutamente meraviglioso; un racconto che sboccia in una molteplicità di generi (tutti affrontati con una maturità che non può non sorprendere se si considera che Dickens, all’epoca in cui si applicava a questo lavoro, non aveva ancora venticinque anni), dalla pura e semplice avventura al poliziesco, passando per il romanzo sociale, per quello di formazione e ancora per quello psicologico, senza trascurare la prosa giornalistica, d’inchiesta e di denuncia, che emerge in tutta la sua drammaticità nella descrizione dei bassifondi di Londra (e dei derelitti che, come fantasmi, ne abitano i ruderi) e si stempera, ma solo apparentemente, nel geniale, feroce sarcasmo che Dickens riserva alle istituzioni di carità, vere e proprie cattedrali della disumanità.
Eccovi l’incipit del romanzo. La traduzione, per Newton Compton, è di Mario Martino (anche curatore di questa edizione). Buona lettura.
Tra gli altri edifici pubblici di una certa cittadina, che per diverse ragioni sarà per me prudente astenermi dal menzionare e alla quale neanche assegnerò un nome fittizio, ve n’è uno familiare un tempo alla maggior parte delle città, grandi o piccole che fossero, e cioè un ospizio di mendicità.
L’ha ribloggato su l'eta' della innocenza.